L’isola dei cani

Giappone. Spazzatura. Cani e umani. Cani che parlano come umani e uomini che non si fanno capire. “L’isola dei cani”, secondo lungometraggio in animazione stop motion di quel geniaccio raffinato che è Wes Anderson dopo “Fantastic Mr Fox”, racconta le avventure di un gruppo di cani del Giappone che, nel futuro 2037, vengono relegati su di un’isola piena di spazzatura a causa di un’epidemia di “influenza canina” che sta dilagando nella città di Megasaki. Grazie all’arrivo sull’isola del piccolo Atari (giunto lì alla ricerca del suo cagnolino Spots), i protagonisti canini ritroveranno la forza e la voglia di cambiare il loro destino.

Vincitore dell’Orso d’Argento per Miglior regista al Festival di Berlino 2018, “L’isola dei cani” è un’opera che attinge a piene mani nelle arti visive giapponesi per restituirle con un tocco alla Anderson. Meno favolistico e tenero dei suoi precedenti film, “L’isola” affronta tematiche delicate come l’abbandono, il declino morale degli esseri umani, il disastro ambientale, la politica corrotta e il senso di solitudine. In un film in cui il linguaggio vero non è quello delle parole ma quello dei gesti e degli occhi, la tecnica della stop motion calza a pennello. Il pelo arruffato e sporco di Chief e compagni, i rifiuti in tutta la loro consistenza, il cielo lattiginoso e il richiamo al teatro kabuki, danno una corporeità unica alle immagini facendo entrare lo spettatore dentro l’isola che diventa una sorta di palcoscenico dove i cani guardano direttamente in camera. La palette cromatica poi vira su colori come il rosso acceso, il nero e il grigio, allontanandosi dai colori pastello tipici della produzione precedente di Anderson. La colonna sonora di Alexandre Desplat poi, a volte quasi militare e scarna, trasmette un senso di drammaticità e maturità tutto nuovo che rende “L’isola dei cani” forse il film meno “andersoniano” di Anderson ma, proprio per questo, interessante e universale in quanto Wes è come se si fosse messo da parte e avesse lasciato spazio e scena ai protagonisti e non più al suo stile eccentrico. Come dice il signor Gustave (Ralph Fiennes) in “Grand Budapest Hotel”: “Vedete, ci sono ancora deboli barlumi di civiltà lasciati in questo mattatoio barbaro che una volta era conosciuto come umanità”.

E noi speriamo che Anderson continui con questa sua ricerca nei barlumi della nostra civiltà, illuminandoci con la sua tenera follia e con le sue incursioni nel cinema di animazione.

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