Il vizio della speranza
Dalla spazzatura nascono anche gemme.
Frase migliore non può che semplificare al meglio IL VIZIO DELLA SPERANZA (e il cinema italiano). C’è solo da ringraziare Edoardo de Angelis, nuova grande scoperta della settima arte che, dopo il pluripremiato INDIVISIBILI porta in scena una storia di profonda umanità che, coadiuvata dal grande schermo, afferra il cuore, lo stritola e lo re-riempie di forti emozioni, senza spezzarlo. Il regista è sincero nel raccontare (lentamente) uno spaccato del sud Italia (o del mondo) apocalittico, incupito da una fotografia grigia che meglio rispecchia le esistenze misere dei personaggi, in una Castel Volturno simbolo di abbandono e schiavitù (le reti sopra le teste di tutti). De Angelis ama il piano sequenza, eppure non ne abusa: preferisce stare addosso alle pedine della sua storia ed inquadrare sguardi colmi di tristezza, ma anche di speranza. E quale miglior speranza se non la maternità, in un “limbo’ in cui la carne umana è merce di vendita e non involucro emozionante? In fondo “l’amore di un figlio viene dalla madre”. Un figlio è l’unica espressione dell’ “eternità” che ci è concessa. Ed anche motivo di fuga da una condizione di “morte apparente”. Ed ecco che la protagonista (Pina Turco) si getta tra il fango e la spazzatura, subendo anche perdite (una morte filmata con dovizia che commuoverà anche l’ultimo degli “orchi”), per inseguire un sogno ed uno solo: la speranza.
Di Vita.
E tra sprazzi di compassione e “schiaffi” al cuore, l’autore prende spunto da un’ottica orientale: non ha bisogno di dividere l’umanità in buoni e cattivi, perché non ne esistono. Ci sono solo le PERSONE, che, in un modo o nell’altro, hanno diritto di Vivere.
Dispiace per Cristina Donadio che si vede poco (da carnefice in Gomorra – La serie è qui convincente vittima), ma gli applausi, oltreché per tutto il cast (una rediviva e bravissima Marina Confalone, un intenso Massimiliano Rossi) sono per la Turco: bellissima, magistrale, magnetica.
Si aggiungono una sceneggiatura perfetta (co-scritta dal bravo Umberto Contarello, storico collaboratore di Paolo Sorrentino), una bella musica di Enzo Avitabile e un regia sapiente, che non spreca un’inquadratura e narra per immagini e non per puerili “spiegoni” (“cari” al nostro brutto cinema “borghese”) …
è prematuro urlare al Capolavoro?