Dolor y Gloria

La vita nel cinema, e il cinema nella vita, potremmo dire; questa la tematica, la linea tracciata da Pedro Almodóvar nel suo Dolor y gloria, presentato ed applaudito al Festival di Cannes 2019. Almodóvar, come ormai da molto tempo il regista spagnolo si firma nei titoli di testa e di coda dei propri film, questa volta, anche se in maniera non scritta, torna ad essere semplicemente Pedro, lasciandosi andare e raccontando quello che ancora non era stato mai dichiarato in interviste o conferenze stampa. Avvalendosi non a caso di suoi collaboratori storici, davanti e dietro la macchina da presa, Almodóvar porta sullo schermo una storia, forse la storia, profondamente sua, una radiografia del suo cinema e della vita. Quanta fedeltà ci sia nel racconto, quanta aderenza trovi la realtà alle parole e alle immagini non lo sappiamo, ma poco importa. Il maestro spagnolo parla comunque senza filtri, senza artefatti, con una sincerità disarmante, e questo ci deve bastare. Di vero, sicuramente, a rappresentare sé ed i suoi sentimenti, ci sono i desideri, le preoccupazioni, la famiglia, l’infanzia: l’alterità che è in te e ti costituisce tuo malgrado, quel legame con un io che sembra passato eppur troppo presente. Di vero c’è la difficoltà di quel “mestiere di vivere” di cui ci raccontava Pavese. Ma allora, se queste sono le intenzioni, di che parla Dolor y gloria? A livello schiettamente narrativo, ancora non passando per il forte piano metatestuale, il film narra di un momento della vita di un importante regista spagnolo, Salvador Mallo (Antonio Banderas), un uomo che attorno ai sessant’anni non ha più la forza mentale e fisica per continuare a creare del cinema, e che si lascia vivere preda a dolori in ogni parte del corpo e al limite della depressione. In un misto di ricordi d’infanzia, dove domina la figura di sua madre (Penelope Cruz), e di scene di un alienante presente, una coincidenza, in pieno stile almodóvariano, porterà il protagonista ad un faccia a faccia con la propria esistenza, dove “l’età all’improvviso disperde quel che credevo e non sono stato”, come cantava qualcuno.

Insomma, Salvador rincontra di nuovo l’attore con cui non parla da 32 anni, Alberto Crespo (Asier Etxeandia) un uomo che fu fondamentale per lui e con cui scoprirà, quasi per caso e senza una vera motivazione, l’eroina, con quel drago da inalare dalla carta stagnola che è al contempo sollievo e schiavitù, liberazione e catena. Di qui accadranno contemporaneamente tante e poche cose, con la fluidità e la casualità proprie della vita, tra demoni e fantasmi, di carne e non, scelte da prendere e redenzione di sé. Come un qualsiasi Marcel che cerca il suo tempo perduto e non riuscendo a dormire si ricorda di tutti i letti in cui abbia mai passato la notte, Salvador/Pedro soffre d’insonnia e non può fare a meno di pensare. E allora, nella sua grande casa dove i suoi unici ideali interlocutori sono i quadri, Salvador pensa, e anche a lui basta una qualsiasi madeleine imbevuta nel the perché inizino a fluire stralci vividi di memoria. Durante il film la sua mente ci mostra così un’infanzia spensierata eppur difficile vissuta forse ai bordi di un fiume, dove le donne del paese scendevano a lavare e stendere i panni cantando, il trasferimento in una cittadina in cui il padre, da solo, lavorava per portare a casa il denaro, i primi talenti che sbocciavano, le prime passioni, gli studi in seminario, non per trasformarsi in prete ma semplicemente per diventare qualcosa, qualcuno, tutto fuorché un uomo da macello, destinato a lavorare con il corpo e le mani. Poi la fuga, Madrid, i primi film e i primi assoluti, luccicanti e disastrati amori. E il cinema, salvifico e morboso, l’amore verso un mondo in pellicola finalmente diventato realtà, non come quando da bambino, dove “il cinema della sua infanzia sapeva del vento d’estate, di pipì e di gelsomino”, gli toccava sperare e pregare che alle sue eroine non accadesse nulla, su quel fantastico telo bianco portato in piazza; no, a Madrid il suo cinema era divenuto vero, le sue eroine morte, e tutto aveva un altro sapore, più forte e più doloroso. Ormai era lui a creare lo schermo bianco della piazza del paese, era lui a muovere i fili di quella danza sinuosa e poetica di immagini e suoni che è il cinema. Ma, appunto, era. Sì, perché Salvador Mallo ormai non scrive più, è assorbito dal vuoto creativo e dai dolori del suo corpo che non gli permettono di girare perché “il cinema è un lavoro molto fisico”, da una nausea profonda, sartriana, una dimensione metafisica ed un atteggiamento psicologico nei confronti dell’esistenza, che lo pervade completamente, al punto che le cose e i pensieri, i fantasmi, hanno un’incidenza enorme sulla sua coscienza e lo opprimono profondamente. La sua vita, in questo stato e senza poter scrivere, non ha più senso. Eppure, le cose, per contingenza o per volontà, possono ancora cambiare. Ma è in questa dimensione che l’opera di Almodóvar si rivela straordinaria: tutto ciò viene vissuto con dolcezza, incanto e meraviglia, senza pietismi, con quella casualità e quella fluidità che solo la vita vera possiede. Almodóvar, insomma, riesce nella difficilissima operazione di raccontare un uomo in un momento della sua vita, perso tra sé e sé ed incerto sul domani. Un domani che però prima o poi arriva, e che per il regista, che sia quello dietro o sopra lo schermo, porta redenzione di sé, capacità di far pace con i mostri che si hanno dentro. Niente di più complesso, insomma, ma niente di più umano. La portata metanarrativa dell’opera è quindi enorme, palpabile, e la sceneggiatura ottima e ben costruita. In un gioco di sapienti mise en abyme, vediamo un Salvador che per riappacificarsi con Alberto gli porta un testo, La Dipendenza, che però non vuole assolutamente firmare perché è “un’autoconfessione” e non vuole che il pubblico lo riconosca, cosa che in effetti però Almodóvar fa con questo stesso film, in un gioco quindi di autoesplicazioni e metacinematografia. Del resto, quello di questa pellicola, è un cinema che alla fine, nell’ultima scena, ci tiene apertamente a esplicare se stesso come finzionale, ma vivo e capace di far vivere. Qui la quarta parete crolla ancora una volta, ma sempre ancora in maniera indiretta.

Il tutto viene amalgamato magistralmente dalla fotografia incredibile di José Luis Alcaine, storico collaboratore di Almodóvar, che sfrutta colori sgargianti ma bilanciati, praticamente sempre appaiati per complementarietà, luci e ombre mai estreme, giocando continuamente con contrasti e ambiguità, quadri con composizioni perfette, spesso sbalorditivamente simmetriche. I movimenti di macchina sono moderati e mai troppo complessi, ma sempre puliti, e vengono praticamente sfruttati tutti i piani ed i campi possibili. Le musiche di Alberto Iglesias, inoltre, accompagnano magistralmente lo scorrere delle immagini. Per costruire questo suo Otto e mezzo, questo suo Manhattan, Almodóvar si affida ad un incredibile Antonio Banderas, il cui personaggio, dai capelli arruffati e dalle camicie sgargianti, è spaventosamente simile al suo creatore. Il suo è un personaggio ricurvo su se stesso, sia fisicamente che moralmente, e l’attore riesce a restituire la sua natura alla perfezione, senza sbavature, con un’integrità che mancava da tempo nella sua filmografia. Penelope Cruz e Julieta Serrano dimostrano una grandissima abilità nell’interpretare i complessi personaggi femminili che il maestro spagnolo è capace di creare. Bravissimo è, inoltre, Asier Etxeandia, che interpreta un attore trasandato, a sua volta con un passato movimentato e irrisolto, e che gioca ancora un ruolo fondamentale nella vita di Salvador. Una menzione va sicuramente fatta a Leonardo Sbaraglia, che regala al personaggio di Federico una inimitabile grazia, nella sua doppia vita e nei suoi ricordi spezzati. Il mondo da loro popolato è ancora capace di redimersi e accettarsi, però. Allora, quando Cèline diceva che alla fine della vita, in men che non si dica, ci si ritrova ad essere solo un lampione di ricordi in un angolo di una strada dove non passa quasi più nessuno forse aveva ragione, ma non per Pedro Almodóvar.

Il Cinema passa ancora.

Claudio Fabbroni

Scenografo, produttore, fotografo e caratterista: tutte cose che non sono. Classe ‘99, dicono io sia studente di Filosofia e sceneggiatore e regista a tempo perso. Ho fatto parte della giuria per l'assegnazione del premio "Leoncino d'Oro" alla 75a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, scritto e diretto qualche opera low budget e lavorato su vari set. Amo Woody Allen, Jacques Tati e Groucho Marx. Odio la critica, le recensioni, l'incoerenza e l'umorismo. [email protected]

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