UN ALTRO GIRO – La recensione di Daniele Fedele

Thomas Vinterberg, “fratello minore” di Lars Von Trier e co-autore del fu Dogma 95, stupisce l’Europa e il suo stesso passato da “outsider del cinema”. Premio Oscar al “Miglior film in lingua straniera” per il suo UN ALTRO GIRO (DRUK). Ma come? Un europeo “puro”, “anti-americano” che vince un premio così prestigioso? Peccato (o per fortuna) che Vinterberg non sia Von Trier, non così netto e distaccato da non comprendere una macchina, quella del cinema, in perenne evoluzione e che, volente o dolente, passa anche per i premi. Che sia il Festival di Cannes, che sia il Festival di Venezia o l’Oscar, i premi sono CONSACRAZIONI. Atti di bontà verso opere e i suddetti “padri” meritevoli. Motivo di orgoglio e spinta (artistica e commerciale) a dare ancor di più. E per Vinterberg è stata una sorpresona. Una carriera altalenante, quanto la sua vita personale (la figlia appena maggiorenne è da poco scomparsa), tra esordi folgoranti (Festen – Festa di famiglia), sonori flop (Le forze del destino, Dear Wendy) e risalite notevoli (Il Sospetto, nominato agli Oscar del 2013). Ed ora la consacrazione con questa commedia drammatica, nerissima ed umanissima. Si parte da un sunto di trama davvero semplicistico: quattro insegnanti, in piena crisi di mezz’età, si ritrovano a cena a discutere una teoria dello psichiatra Finn Skårderud, sostenitore del fatto che l’uomo sia nato con un deficit da alcol pari allo 0,05% che lo renderebbe meno attivo sia nelle relazioni sociali che in quelle psico-fisiche. E così, quasi per gioco (e consci delle rispettive crisi personali), i quattro iniziano a sperimentare, consumando lievi dosi di alcool durante il giorno (non oltre le ore 20:00, come “insegna” Ernest Hemingway) e constatando miglioramenti di autostima, a contatto con studenti e vita privata. Una trama degna delle peggiori commedie demenziali americane, ma che in mano al regista danese diviene un’opera davvero notevole. Non basti citare la tecnica “figlia” del Dogma (macchina a mano, messe a fuoco sfocate in favore dei primissimi primi piani, luce naturale di ambienti aperti), mai fine a sé stessa e guidata dalla buona fotografia di Sturla Brandth Grøvlen, che restituisce illuminazioni artificiali (quando serve) in interni e, di contro, aperte ma fredde in esterni: perfetta sintesi dello stato d’animo dei quattro, tanto “felici” nel proprio “microcosmo” quanto miserabili da punti di vista esterni. Il mix di commedia e dramma è ben posato: impossibile non ridere dei quattro quarantenni (barcollano e sbattono contro i muri, come nelle più classiche delle “comiche”) e non si può che empatizzare con loro per la tenacia nell’inseguire la “folle” impresa. Eppure, l’autore evita qualsiasi forma di retorica e luogo comune. Non condanna l’alcool, tantomeno l’alcolismo (piaga ben più grave): condanna l’essere umano, in quanto debole e fallimentare.
Se nel primo tempo si gioisce alle riconquiste dei quattro, nel secondo i nodi vengono al pettine; l’uomo, in quanto fragile e tendente a “strafare”, può facilmente compiere il “passo più lungo” e perdere tutto: le piccole gioie acquisite, gli affetti … e la dignità.

Con poche scene e dialoghi serrati, Vinterberg va dritto al sodo e riflette su una generazione, quella di mezz’età, abbandonata alla solitudine, alla sedentarietà e alla mancanza di empatia; un ente esterno, che sia una birra, un farmaco (o il cinema stesso, per i cinefili) sono palliativi, ma le vere sfide si affrontano in pieno viso.
E in quanto fragili, è facile fallire: riconoscerlo e ripartire da zero è la “chiave di Volta”.
Re-imparare ad ascoltarsi. Re-imparare a dialogare. Re-imparare ad amare.

L’alcol non fa male: siamo noi a farcene! Questa è la risposta dell’autore che, in un finale magnifico e liberatorio, fa avvalere la sua tesi, con coraggio e delicatezza. Senza strafare inutilmente, ma tenendo il tono basso, leggero.
Come leggeri sono i corpi che si “librano” al dì sopra dei loro (e nostri) limiti.

Ottime performance attoriali, dal solidale Thomas Bo Larsen (attore feticcio del regista) al solito immenso Mads Mikkelsen: sguardo malinconico e padronanza del corpo come pochi attori, in Europa e nel mondo.

Daniele Fedele

Mi chiamo Daniele FEDELE, ho ventisei anni e possiedo due lauree: una di fascia triennale in “Discipline delle Arti Visive, della Musica, dello Spettacolo e della Moda” e un’altra “completa” in “Scienze delle Arti Visive e della Produzione Multimediale”. Oltre ad un’esperienza come “addetto alla supervisione” presso la Biblioteca Comunale “Francesco Morlicchio” di Scafati (SA), dove risiedo, per un anno ho frequentato il Master di I livello in Cinema e Televisione presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, che mi ha consentito di iniziare un periodo di stage presso la MAD ENTERTAINMENT, che tanto ammiro per aver rilanciato l’animazione come genere e forma d’arte cinematografica in Italia. Seguo l’arte del cinema e dell’audiovisivo dall’età di sei anni, sono grande appassionato di tutto ciò che riguarda la settima arte, la musica, i videogiochi e in generale ogni elemento simile che colpisca ed arricchisca l’animo umano. Per quanto piena di ostacoli e sacrifici, non potrei cambiare la mia passione con nessun’altra: vivrei un’esistenza di stenti e rimpianti, in tutt’altro settore. Mi diletto anche nell’editing video da autodidatta e ambisco a diventare regista, sceneggiatore e/o montatore per l’audiovisivo. Per qualsiasi piattaforma. Tra i miei miti “cinematografici” ci sono: il mio “maestro spirituale” QUENTIN TARANTINO, che mi ha fatto comprendere di dover “vivere nella settima arte” e non solo “sfiorarla”, JOHN CARPENTER come “maestro dell’orrore umano”, STANLEY KUBRICK come “maestro della forma e sostanza”, SERGIO LEONE, DAVID CRONENBERG, TIM BURTON, GUILLERMO DEL TORO, NEILL BLOMKAMP, JAMES CAMERON, DAVID LYNCH, GASPAR NOE`, il Maestro HAYAO MIYAZAKI nell’ “animazione che scalda il cuore e arricchisce l’anima”, WALT DISNEY come “insegnante dei sogni”, ISAO TAKAHATA come “animatore neorealista” e altri ancora impossibili da elencare. Grande estimatore dello STUDIO GHIBLI e del PIXAR ANIMATION STUDIOS, che tanto mi ha fatto sognare con “TOY STORY” e piangere con “INSIDE OUT”. Tra i miei miti “sonori” ho ENNIO MORRICONE, HANS ZIMMER, gli M83, i DAFT PUNK, JOE HISAISHI, HOWARD SHORE e vari artisti delle colonne sonore quali NOBUO UEMATSU, la TOKYO PHILARMONIC ORCHESTRA e altri. E come non ammirare HYDEO KOJIMA per aver innalzato il media videoludico a “forma d’arte”? 

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