PULP FICTION

Togliamoci il dente fin da subito: il Coronavirus ha seccato e distrutto anche troppo i neuroni e i corpi umani. Quattro mesi lontano da Unici Magazine sono stati una tortura, riadattarsi a fare altro (vuoi per necessità, vuoi per nuove strade), alla lunga, porta a profonda tristezza. Più che altro, la mancanza del Cinema dona un vuoto incolmabile all’anima di ogni appassionato della Settima Arte. Almeno, così è stato per chi vi scrive. Provare timore durante la scrittura, avvertire il tremore alle mani, sentirsi inadeguato e ormai stanchi, fuori allenamento nell’analizzare film … l’ennesima trappola per la mente, causa il dannato COVID-19.

Ma come vivere senza il Cinema?
E allora, mentre si attende la riapertura delle sale (sono già in fila per ri-fiondarmici, per quanto mi riguarda), ecco la mia dichiarazione d’amore verso IL FILM, l’opera che mi cambiò radicalmente, in una lontana estate del 2008. Un pischello senza barba, qual’ ero io, che cazzeggiava con film, videogiochi e cartoni animati, un ragazzetto che, per casi fortuiti, si era procurato alcuni DVD per ingannare il tempo di una noiosa e calda estate in provincia. La prima “lampadina” in testa si accese alla visione “in contemporanea” de KILL BILL (Vol. 1 e Vol. 2) e una parte del mio cuore iniziò a battere forte, per il più grande amore mascolino mai provato (e sono eterosessuale!): QUENTIN TARANTINO, classe 1963, “gemello maggiore” del sottoscritto. Non è una battuta, E’ VERO: la “follia cinefila”, il “vivere il cinema” come ARTE TOTALE (giocosa e accrescente) e l’aspetto fisico (il “doppio mento” sotto la bocca è leggermente IDENTICO al mio … chissà perché!).

L’amore TOTALE e la seconda e DEFINITIVA lampadina si accesero in contemporanea, qualche giorno dopo; mi ero procurato due DVD, due film, uno l’antitesi dell’altro: AL BAR DELLO SPORT (con Lino Banfi) … e PULP FICTION. Visti entrambi lo stesso giorno.
Il primo volò via con indifferenza: pur apprezzando Banfi, mi ha divertito parzialmente: non ci si può aspettare tanto da un filmetto senza pretese.
Scese la sera. Cenai. E mi re-piazzai davanti alla tv: pigiama corto, pancia all’aria e corpo spaparanzato sul letto. Inserii il dvd nel lettore e il film partì.

O dovrei affermare: “UN NUOVO MONDO MI SI PARO’ DINANZI”.
MAI avrei pensato che quasi tre ore della mia vita sarebbero volate come cinque minuti. MAI avrei creduto che quell’opera mi avrebbe dato l’input per “smettere di osservare i film” e scegliere di “VIVERLI”, di mettermi in gioco per studiare e realizzarmi in campo cinematografico: come critica (non leggereste queste mie righe!) e come tecnico. Su quest’ultima, c’è ancora strada da fare … e forse potrei non farcela (perché l’Italia ha un’industria cinematografica disgraziata) … ma se “Daniele Fedele” è NATO, come “uomo di Cinema”, lo deve a PULP FICTION.

Cosa scrivere di quest’opera che non si sia già scritto? Potrei chiudere affermando semplicemente “CAPOLAVORO ASSOLUTO”? “OLTRE CINEMA”? “FILM PIU’ IMPORTANTE DEGLI ULTIMI QUARANT’ANNI”?
Premio Oscar alla “Miglior Sceneggiatura Originale” (“FORREST GUMP” rubò un po’ troppo spazio, nel ’95), Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes e successo eccezionale (oltre 200 milioni di dollari al botteghino, al fronte di un budget di 8) … c’è da aggiungere altro? Come altre opere dell’autore, il film non segue una narrazione lineare, ma mescola episodi di vita apparentemente sfilacciati, esistenze di personaggi fortemente sgraziati, non edificanti, ma dotati di una profonda umanità. Una coppia, Zucchino e Coniglietta, (geniale presa in giro de “Bonnie & Clyde”, con due ottimi Tim Roth e Amanda Plummer) decide di rapinare la tavola calda nella quale stanno facendo colazione. Fermo immagine sui due, appena “entrati nei personaggi”, con pistole spianate. Titoli di testa sulle note de Misirlou, tema super cult degli ultimi trent’anni (la conoscono tutti, inutile dedicarvi altre righe). Cambio scena: ecco due gangster (John Travolta, redivivo e Samuel L. Jackson), in una sgangherata Chevrolet degli anni ’70, che avanzano lungo una strada periferica di Los Angeles, nelle prime ore del mattino. Parlano e ridono di argomenti frivoli (gli hamburger dei fast food). Una “quiete prima della tempesta”. Infatti, si fermano all’ingresso uno squallido condominio e, dal bagagliaio, tirano fuori delle pistole, pronti a svolgere un “lavoretto” per Marcellus Wallace (il loro “capo”). Anch’essi “entrano nei personaggi”, quelli di due assassini spietati, pronti ad uccidere un poveraccio (tale Brett) che ha provato a fregare Wallace, sottraendogli una misteriosa valigetta: un McGuffin alla Alfred Hitchcock, oggetto che fa discutere i cinefili da anni: perché la combinazione d’apertura è 666 (Belzebù, a noi!)? Perché un’accecante luce dorata fuoriesce dall’interno? COSA CONTIENE? Forse l’ “anima” del boss? Forse il tesoro rubato in Le Iene (precedente film di Tarantino)? È così importante saperlo? NO. È un pretesto per far incontrare/scontrare i personaggi. E CHE personaggi. I dialoghi, bizzarri e (apparentemente) sconclusionati, ci dicono più dei perfetti movimenti di macchina. Vincent Vega (un Travolta ingrassato, tozzo e involgarito) è un rozzo “americano medio”, avventato e maldestro nelle sue azioni (ci torniamo tra poco), mentre Jules Winnfield (Jackson strepitoso, nel ruolo della vita) è l’opposto: freddo, posato, calcolatore … una vera macchina da guerra. Basterebbero i primi piani sequenza a consacrare la pellicola all’ “immenso”: lo scambio di battute sui “massaggi ai piedi”, la camera che segue l’avanzata dei due in un lercio corridoio, la fotografia perfetta di Andrej Sekula che evidenzia una Los Angeles “calda” e al contempo “fredda”, marcia, asservita alla cattiveria umana … OGNI COSA è dove deve essere. La violenza che segue, con tensione crescente e citazione biblica (Ezechiele 25:17), ci sbigottiscono, fino ad un nuovo cambio scena, con annesso salto temporale. Nuovo episodio, tutto per Vega. Da killer spietato, muta in buffo accompagnatore per Mia Wallace, annoiata moglie del boss. Un ruolo che definire “meraviglioso” è troppo poco. Una vera icona (la locandina è tutta sua), stereotipo della femme fatale interamente stravolto, per la gioia di una Uma Thurman in stato di grazia. Usciti per cena, i due si recano al Jack Rabbit Slim’s, un locale kitch a tema anni cinquanta (rimandi a Marylin Monroe, Chuck Barry e alla cultura pop dell’epoca, A CASCATE). Ennesimo tocco di genio: passare dal gelante omicidio di prima a momenti grotteschi, quasi fosse un altro film (e un altro genere), è una raffinatezza che solo Tarantino poteva creare. Tra un boccone ad una bistecca e un “frappé da cinque dollari”, i due iniziano a conoscersi meglio, spaziando da argomenti banali (la barzelletta de Volpi Forza Cinque) a temi filosofici (i silenzi che mettono a disagio), fino a farsi coinvolgere in una gara di twist, scatenandosi sulle note di “You Never Can Tell”. Tra primi piani laterali e ritmo lento (ma mai noioso), l’autore sottolinea le profondità e le debolezze umane di questa strana coppia. Lei, in camicetta bianca attillata e frangetta nera sulla fronte (una parrucca, essendo la Thurman bionda). Lui in coda di cavallo e cravattino da cow-boy. Tanto diversi, quanto uniti, riscopertisi soli, sensibili e desiderosi di affetto. Sentimento che si scambiano nella danza iconica, alla quale gli interpreti donano un calore e un affiatamento che pochissime coppie hanno donato al Cinema. La dovizia di particolari nei movimenti di macchina (Fellini e Goddard “derubati”), l’obiettivo che li segue in forma circolare, passando da un punto di vista all’altro, in un collage di piani sequenza magistrali e ottimamente montati (pace all’anima di Sally Menke), sfiorano l’assoluto. Ed ecco, a seguire, una corsa contro il tempo per la vita di Mia, finita (per sbaglio) in overdose. Continua il tocco di genio: trasformare una situazione drammatica e simil-horror in cinque minuti di delirio esilarante, non è cosa da poco, grazie allo scambio di battutone tra Travolta e un giovanissimo Eric Stoltz (suo pusher). La macchina a mano e il montaggio certosino fanno il resto, unite ad una bella “siringata” di adrenalina nel cuore della Thurman, che si ridesta tra urla orrende, volto insanguinato, un primo piano terrificante (e meraviglioso), lo sguardo rivolto allo spettatore e la consegna alla storia di un’ennesima sequenza miliare. Scelta coraggiosa per Tarantino, ad un passo dal trash: non esiste “resuscitare” una persona in overdose con una banale siringa. Né è possibile tornare a casa “come nulla fosse”. Ed è questa la sua forza: trasformare l’irreale in reale, ricordare al pubblico che E’ CINEMA, la FINZIONE PER ECCELLENZA.
Salto temporale. Nuovo episodio. Butch Coolidge (Bruce Willis al top) è un pugile vendutosi a Wallace per soldi, che nasconde un episodio bizzarro d’infanzia. Lungo e instancabile flashback, con prova da novanta per un Christopher Walken mastodontico, in abiti militari e con in consegna un orologio d’oro, ricordo di senior Coolidge morto in Vietnam. L’estremizzazione e la parodia della guerra stessa come atto scellerato (Walken è molto preso dal suo racconto e l’orologio d’oro ha attraversato più deretani per arrivare al piccolo Butch). Il pugile fa il doppio gioco e scommette su sé stesso, vincendo e addirittura uccidendo l’avversario. Inizia una fuga contro il tempo per salvare le chiappe da Wallace, non prima di un’appassionata notte d’amore con Fabienne (Maria de Medeiros, mai più a questi livelli), in uno squallido motel che diviene un romantico castello dorato, per la coppia. Ancora una volta, Tarantino sfrutta il mezzo per denudare i personaggi: Fabienne è una donnetta gracile e sensibile, perdutamente innamorata del suo principe azzurro, un uomo dai profondi istinti animaleschi, ma capace di addolcirsi dinanzi alla donna. Fondamentale, in tal senso, la sfuriata all’indomani, con televisore scaraventato contro una parete e Willis su tutte le furie (Fabienne, nello svuotare il suo appartamento, ha dimenticato proprio l’orologio d’oro del padre), ma mutante un secondo dopo. Grande prova d’attore e tesissimi istanti di Grande Cinema. Rientrato in casa, Butch recupera l’orologio, ma ad attenderlo c’è una sorpresa: Vincent Vega è nascosto nella toilette (altro collante per il mutare delle vicende), ma questi muore in una sequenza degna del miglior spaghetti western (Sergio Leone citato a tutto spiano), proprio sulla tazza del bagno. Ecco che l’autore di Knoxwille stravolge Travolta e il suo personaggio, la goffaggine di Vega esplode con la sua stessa carne martoriata dalle pallottole. L’aver lasciato quasi morire Mia Wallace per overdose, aver dimenticato una mitraglietta in cucina (e altre distrazioni da qui a vedersi) sono il risultato di un essere sbagliato, meschino. Umano sì, simpatico anche, ma in fin dei conti un lurido gangster, che MERITA quella fine. Tarantino, insomma, patteggia per tutti e detesta tutti. Non esalta la violenza (come qualche FOLLE si ostina ANCORA ad affermare), ma la estremizza in modo grottesco, per esorcizzarla e condannarla. Neanche Butch è salvabile: uccide un altro essere umano. Ma il “tocco di Dio” è presente e il pugile, fuggendo, si imbatte proprio in Marcellus Wallace, in un momento tragicomico degno di un cartone animato e (nuovamente) di un western, con nuove sparatorie e inseguimenti periferici, tra litri di sangue e ferite aperte. Ciliegina sulla torta, i due finiscono a picchiarsi in banco pegni, ovvero la tana di due lupi, tali Zed e Maynard, sadici stupratori omosessuali. Scelta talmente assurda da far ridere … peccato che, quanto segue, sia tutto fuorché comico. La battaglia che Willis e Wallace (Ving Rhames mai più così in forma) affrontano, non è tanto diversa da quella Vietnam: lo spirito del padre defunto rivive nel volto stordito e spaventato di Butch, che decide, consciamente, di salvare il suo aguzzino da due ben peggiori (che lo sodomizzano), a colpi di katana (un accenno de KILL BILL) e pallottole spacca-inguini. Wallace viene salvato non quanto essere (è pur sempre un gangster omicida), ma per la sua moralità: egli perdona Coolidge, a patto che scappi per sempre e non racconti a nessuno l’episodio. Altro momento di Grande Cinema, con dialoghi profondi e campo largo degno del miglior cinema di genere (italiano, soprattutto).
Ultimo salto temporale. Ultimo episodio. I tasselli scomposti si ricongiungono e la continuità narrativa risulta coerente. Come un puzzle smontato e re-assemblato, perfettamente.

Siamo di nuovo nell’appartamento di Brett, subito dopo l’omicidio di questi. Ci sono Travolta (ancora vivo) e Jackson. Qualcuno esce dalla toilette (visto che ritorna?) e spara ai due, ma le pallottole non vanno a segno. Questi muore, i due sono salvi. Jules, il più saggio tra i due, si convince di un probabile intervento divino, il “tocco di Dio” che li ha salvati per dar loro una seconda chance. È il momento di lasciarsi alle spalle la vita da gangster … almeno per Jules: Vincent ci ride su e ciò lo condannerà. Non solo per la morte che da lì a breve giungerà, ma per l’ennesimo atto idiota che commette: per sbaglio, spara a Marvin, ragazzotto portatisi dietro come vittima. Cervello spappolato e sangue schizzato in tutta la Chevrolet. Momento splatter/horror tramutato in gran commedia, dai soliti assoluti dialoghi e da una grande alchimia tra i due attori. E qui, non solo Quentin si ritaglia una spassosa particina (è Jimmie, l’amico nevrotico del “deposito di negri morti”), ma regala ad Harvey Keitel (forse) il ruolo della vita: Mr. Wolf, “risolvo problemi”, freddo gentlmen accorso a ripulire i “due cazzoni” e a far sparire il corpo. I movimenti sobri dell’attore, la spontaneità della performance, la carica del suo sguardo … una perfezione degna dei migliori insegnamenti dell’Actors Studio. Impossibile non ridere per l’assurdità del tutto, soprattutto per come Tarantino spoglia (letteralmente) i due gangster, riducendoli a ciò che sono: DUE CAZZONI, con tanto di t-shirt e calzoncini esilaranti. Manca solo una capatina in tavola calda per una buona colazione … ed eccola. La stessa della rapina di Zucchino e Coniglietta. Rieccoli estrarre le pistole ed “entrare nei personaggi”. Altri “due cazzoni” atteggiati a “gran ladri”. Mentre Vincent è alla toilette (ancora!), Jules attira a sé Zucchino grazie alla “luce misteriosa” della valigetta. Non è un caso che Roth ne sia attratto: era egli stesso interprete de Le Iene, nel ruolo di un poliziotto infiltrato. Come se il “suo” sbirro, “re-incarnato”, osservasse la refurtiva sfuggitagli nel film precedente. Jackson mette in scacco il ladruncolo, puntandogli la pistola contro e denudandolo del “personaggio”. Intervenuto anche Vincent, varie pistole sono puntate tra essi, in uno stallo alla messicana ricorrente nel cinema del regista (il finale de Le Iene, l’assalto al soldato tedesco in BASTARDI SENZA GLORIA). Jackson ruba la scena, in dieci minuti che volano via come fossero pochi secondi. Il suo sguardo freddo e la carica della voce (lode anche al doppiaggio di Luca Ward), tengono l’attenzione desta fino ai titoli di coda. Per l’ultima (e strabiliante) volta, Tarantino non salva né condanna nessuno. Ci dona dei comuni uomini: vittime, carnefici, desiderosi di redenzione e arrabbiati con un’esistenza ingiusta.

“E’ il mondo ad essere malvagio ed egoista, forse … ma questa cosa non è la verità […] tu (Tim Roth o lo spettatore) sei il debole, io (Jules, Tarantino e il Cinema) sono la tirannia degli uomini malvagi … ma ci sto provando, Ringo … ci sto provando con grande fatica, a diventare il pastore”.

Il “pastore” di quel sapere che solo il Grande Cinema dona alla Storia.
E PULP FICTION è GRANDE CINEMA. Immortale. Immutabile. Imperfetto, come ogni forma d’arte, ma perfetto nell’animo.
IL Mito.

Daniele Fedele

Mi chiamo Daniele FEDELE, ho ventisei anni e possiedo due lauree: una di fascia triennale in “Discipline delle Arti Visive, della Musica, dello Spettacolo e della Moda” e un’altra “completa” in “Scienze delle Arti Visive e della Produzione Multimediale”. Oltre ad un’esperienza come “addetto alla supervisione” presso la Biblioteca Comunale “Francesco Morlicchio” di Scafati (SA), dove risiedo, per un anno ho frequentato il Master di I livello in Cinema e Televisione presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, che mi ha consentito di iniziare un periodo di stage presso la MAD ENTERTAINMENT, che tanto ammiro per aver rilanciato l’animazione come genere e forma d’arte cinematografica in Italia. Seguo l’arte del cinema e dell’audiovisivo dall’età di sei anni, sono grande appassionato di tutto ciò che riguarda la settima arte, la musica, i videogiochi e in generale ogni elemento simile che colpisca ed arricchisca l’animo umano. Per quanto piena di ostacoli e sacrifici, non potrei cambiare la mia passione con nessun’altra: vivrei un’esistenza di stenti e rimpianti, in tutt’altro settore. Mi diletto anche nell’editing video da autodidatta e ambisco a diventare regista, sceneggiatore e/o montatore per l’audiovisivo. Per qualsiasi piattaforma. Tra i miei miti “cinematografici” ci sono: il mio “maestro spirituale” QUENTIN TARANTINO, che mi ha fatto comprendere di dover “vivere nella settima arte” e non solo “sfiorarla”, JOHN CARPENTER come “maestro dell’orrore umano”, STANLEY KUBRICK come “maestro della forma e sostanza”, SERGIO LEONE, DAVID CRONENBERG, TIM BURTON, GUILLERMO DEL TORO, NEILL BLOMKAMP, JAMES CAMERON, DAVID LYNCH, GASPAR NOE`, il Maestro HAYAO MIYAZAKI nell’ “animazione che scalda il cuore e arricchisce l’anima”, WALT DISNEY come “insegnante dei sogni”, ISAO TAKAHATA come “animatore neorealista” e altri ancora impossibili da elencare. Grande estimatore dello STUDIO GHIBLI e del PIXAR ANIMATION STUDIOS, che tanto mi ha fatto sognare con “TOY STORY” e piangere con “INSIDE OUT”. Tra i miei miti “sonori” ho ENNIO MORRICONE, HANS ZIMMER, gli M83, i DAFT PUNK, JOE HISAISHI, HOWARD SHORE e vari artisti delle colonne sonore quali NOBUO UEMATSU, la TOKYO PHILARMONIC ORCHESTRA e altri. E come non ammirare HYDEO KOJIMA per aver innalzato il media videoludico a “forma d’arte”? 

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