Notti magiche

Nostalgico, poco indulgente e ironico: il nuovo film di Paolo Virzì, Notti Magiche, che ha chiuso l’ultima edizione del Festival internazionale del Film di Roma, è arrivato nelle sale e presenta una storia non nuova, ma in maniera molto particolare.

Dopo l’omaggio iniziale alla hit di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, si consuma lo psicodramma dei rigori. La telecronaca di Bruno Pizzul risuona per le strade di Roma e sale da un chiosco lungo il Tevere: rigore di Donadoni, parato; rigore di Maradona, dentro; arriva Aldo Serena per un ultimo tiro della speranza, con un pallone che pesa un Mondiale. Ma anche lì Goycochea para. Ed ecco che in quel momento, mentre tutti sono intenti a guardare l’uscita dell’Italia dal Campionato del Mondo ed urlare, un’auto precipita nel Tevere.

Questo è solo l’incipit, il preambolo dell’ultima opera di Virzì.

Quell’automobile che precipita icasticamente in un momento così, non è l’Italia di allora, persa nel sogno di un Mondiale vinto in casa, e già alla fine della prima repubblica; quella macchina che cade è il cinema italiano dell’epoca, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, che, a ripensarci, grazie al paragone calcistico suggerito da Virzì, era molto simile alla nostra Nazionale uscente vittoriosa quattro anni prima in Messico, gloriosa e invecchiata male, a cui nessuno aveva saputo e avrebbe potuto dire nulla.

Perché ciò? Perché in Notti Magiche i Mondiali fanno da contorno storico, scandiscono il tempo che passa inseguendo non un goal, ma il cinema italiano e il suo declino, che è il vero protagonista di questa storia, ma procediamo con ordine.

Nell’auto viene ritrovato il cadavere del noto produttore Leandro Saponaro (Giancarlo Giannini), che però non è morto per annegamento. Vengono così chiamati in questura la sua amante e i tre personaggi intorno ai quali la storia verte: i giovani sceneggiatori vincitori del premio Solinas di quell’anno (Mauro Lamantia, Giovanni Toscano e Irene Vetere), su cui ricade il sospetto.

Tutto il film è basato sulla storia che i tre ragazzi raccontano al “Capitano” dei Carabinieri (Paolo Sassanelli), che li interroga circa tutta la loro permanenza a Roma, durante la quale verranno catapultati nei retroscena del “grande cinema italiano” (che doveva essere il titolo originario del film). Questo mondo in pellicola è tutto vero, esagerato, inventato, ricostruito e ricordato da Virzì stesso e dalla Archibugi, che in quel momento avevano proprio l’età dei tre protagonisti. E’ un mondo ricreato un po’ giocando al gioco del name dropping selvaggio tipico di quegli ambienti (Fulvio, Leo, Suso, Ennio, Giovanna), un po’ a quello dei riconoscimenti impliciti e poi anche, ovviamente, a quelli espliciti, che siano solo nominati od anche mostrati (ci passano così davanti agli occhi Fellini, Mastroianni lasciato per l’ennesima volta dalla Deneuve, la grigia eminenza dello sceneggiatore Zeppellini, Benigni, Pontani e tanti altri tra cui Monicelli e la Wertmuller); tutt’intorno i personaggi che si aggirano nel sottobosco: le aspiranti attrici dai modi facili, gli avvocati, i negrieri e i negri, i giornalisti che s’imbucano sui set e alle feste, gli stuntman che hanno fatto la fortuna del B movie.

E ovviamente Saponaro, l’emblema di un intero mondo, tra pochi splendori e mille miserie.

Il film tratta del cinema italiano, pieno di uomini vecchi e stanchi, “ma ancora pieni di contratti”, che non inventano più cose nuove, e che per questo stanno fagocitando se stessi. Ma lo fa nei toni di una commedia che si mischia al noir e al giallo, in maniera perfettamente bilanciata. Il film, questo esplicitamente, è rivolto ai “giovani sceneggiatori italiani”, non tanto a quelli di ora, ma a quelli di allora, i quali avrebbero dovuto “guardare fuori dalla finestra” e risollevare le sorti del cinema italiano, ma che non sono riusciti a farlo.  E dunque Notti magiche è la cronaca semiseria di un fallimento generazionale, di un autoinganno coltivato e a un certo punto dimenticato per proseguire tranquilli lungo la propria strada e nel frattempo riprendere, cambiare, ricordare, stravolgere, tradire.

E’ stato scritto che il film voglia dare una lezione di sceneggiatura ma non ci riesce, perché manca di “fatti”. Ma tale argomentazione perde di sussistenza nel momento in cui i tre sceneggiatori vengono rampognati dal “Capitano” che indossa, in un momento meta-cinematografico, le vesti del regista spiegando loro come stiano in realtà le cose riguardo all’”omicidio”, dal momento in cui non riescono ad arrivarci da soli. E per questo motivo dice loro che vogliono fare gli sceneggiatori, architettare mondi, ma non riescono a guardarsi intorno; che le cose non funzionano come nei gialli, dove esse accadono sempre secondo una logica, che è quella dell’autore, ma che nella vita vera esse accadono, punto; che questo avrebbero dovuto raccontare nei loro film, ma ne sarebbero mai stati capaci? La risposta, rivolta a se stesso ma anche a tutti coloro che avevano iniziato a fare cinema in quegli anni, di cui i tre protagonisti sono simbolo, è purtroppo amara. Nel fare ciò il “Capitano” indossa quindi anche le vesti del pubblico deluso che vede e capisce.

L’argomentazione di cui sopra perde di sussistenza proprio riguardo ciò che critica, ossia che il film è troppo parlato; infatti Virzì postula già all’inizio la predominanza della parola sull’azione, essendo che l’intera narrazione prende le mosse da un interrogatorio. Diventa quindi interessante notare come il cineasta nostrano, pur citando nella sua costruzione una buona parte di Story di McKee, trascenda la classica direttiva dello “show it, don’t say it”.

Insomma, in questa pellicola molto interessante, permeata di malinconia felliniana (dove non a caso appare lo shooting dell’ultima scena de La voce della luna, ove Benigni asserisce:”Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse potremmo capire”), viene, comicamente e nostalgicamente, smascherata l’ipocrisia del potere cinematografaro e viene posta una pietra tombale su una stagione sì gloriosa, ma che aveva commesso l’errore di tenersi tutto fino all’ultimo, fagocitando i propri figli, novello Crono, senza capire la lezione (non a caso, forse, nello shooting sopra citato, vediamo lontano, sullo sfondo, qualcosa che sembra essere l’impalcatura del set di Otto e mezzo).

“Solo una cosa – dirà la figlia di una dei tre protagonisti – ripeteva sempre, che credo le avesse detto uno dei grandi sceneggiatori del cinema italiano: bisogna sempre guardare fuori dalla finestra. Cosa volesse dire? Boh”.

 

Claudio Fabbroni

Scenografo, produttore, fotografo e caratterista: tutte cose che non sono. Classe ‘99, dicono io sia studente di Filosofia e sceneggiatore e regista a tempo perso. Ho fatto parte della giuria per l'assegnazione del premio "Leoncino d'Oro" alla 75a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, scritto e diretto qualche opera low budget e lavorato su vari set. Amo Woody Allen, Jacques Tati e Groucho Marx. Odio la critica, le recensioni, l'incoerenza e l'umorismo. [email protected]

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