L’uomo che uccise Don Chisciotte

Don Chisciotte, diventato aggettivo nella nostra società, è il paradigma dello sfortunato individuo che cerca di combattere – inutilmente – contro i mostri della propria vita, mulini giganti da distruggere per proteggere la propria Dulcinea del Toboso. 

Lo sa bene il regista del film, Terry Gilliam, che ha dovuto aspettare venticinque anni per raccontare questa storia, nata nel 1992, passata da un festival di Cannes e raccontata nel documentario Lost in La Mancha.

Gilliam con la stessa ostinazione di Don Chisciotte. Don Chisciotte da aggettivo diventa un modus vivendi. 

Chiunque tende la mano all’eroe senza macchia e senza paura ne resta dolcemente rapito ed inizia a tinteggiare la propria vita coi colori del romanzo di Cervantes, a piedi o sul proprio Ronzinante, l’importante è credere sempre in sé stessi, a qualsiasi costo. 

Gilliam racconta quanto questa storia senza tempo riesca ad essere contagiosa. Come Alice che precipita nel suo paese delle meraviglie, lo spettatore viene trascinato nel vortice favoloso del romanzo di Cervantes.

Gilliam racconta il contagio che genera Don Quixote attraverso l’autenticità di un protagonista in un mondo che ne è totalmente privo, con la dolcezza di un vecchio calzolaio (interpretato meravigliosamente da Jonathan Pryce – 71 anni), incastrato nella propria bottega, dalla quale esce solo per cavalcare Ronzinante e impugnare la spada. 

Io sono colui per il quale sono espressamente riservati i pericoli. 

Io sono Don Chisciotte della Mancia!

Gilliam racconta il contagio positivo di Don Quixote ambientando il film in posti magici e autentici, almeno quanto il protagonista. Valga ad esempio il Convento de Cristo a Tomar, in Portogallo, location di una lunga scena della pellicola, in cui c’è una Madonna a forma di albero di Natale da bruciare, e in altri luoghi della Spagna, della Francia e del Regno Unito. 

Un racconto favoloso anche per le scenografie, le location (il furgone in cui viene proiettato il film del regista Toby), le interpretazioni e le inquadrature. [Un paio di volte mi sono chiesto se la scena fosse stata girata con una gopro o semplicemente con un fisheye.]

Un racconto romantico e grottesco che si apre prendendosi gioco di sé (nei titoli di testa si legge “and now… 25 years in the making… and unmaking”) e descrivendo la vita di un regista (Adam Driver) costretto a dover dirigere spot commerciali, che sommergono il romanticismo della propria professione e della propria vita.

Un racconto che si ispira ai quadri di Goya e Gustave Dorè che disegnò il cavaliere errante nel diciannovesimo secolo. 

Un film che diventa – chisciottianamente – paradigma di un cinema capace di far sognare, sorridendo, e di raccontare la vita, che trasporta lo spettatore in un mondo costellato di vite in frantumi, di sogni non ancora realizzati, di amori eterni, di giochi e di nemici da affrontare.

Un film magico, irrinunciabile anche se doppiato, per emozionarsi ancora come bambini ascoltando una storia.

A testimonianza di quanto Don Quixote sia universale, i versi che seguono sono parte di una canzone scritta dai Coldplay, e mai diffusa, all’indomani della tournèe in sudamerica.

Don Quixote Vive! 

“So we left La Mancha
Heading out for higher plains
Me and Sancho Panza
Looking for adventure
Rocinante at the reigns
Until the windmills answer”

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