Lucky

L’esordio alla regia di John Carroll Lynch si traduce in un commuovente omaggio al compianto Harry Dean Stanton.


Lucky è un ateo novantenne sopravvissuto a gran parte dei suoi amici, che a un certo punto della sua vita intraprende un ultimo grande viaggio spirituale alla scoperta di sé, pur continuando a vivere nelle abitudini e nei rapporti con gli abitanti di una cittadina nell’entroterra degli Stati Uniti. I suoi dubbi, la sua rigidità apparente e la progressiva consapevolezza di star raggiungendo l’ultima tappa della sua esistenza ne comporranno un ultimo grande volo interiore.

“Solo” questo racconta Lucky. E si arriva in sala col cuore in mano a sapere che è già passato un anno dalla morte del suo protagonista, da qualcuno definito un enorme “caratterista”, ma forse semplicemente un genio interpretativo, amato da registi come David Lynch (che figura nel film in un prezioso piccolo ruolo che sembra uscito da uno dei suoi capolavori e che omaggia così il suo amico di sempre), Francis Ford Coppola, Sam Peckinpah, John Carpenter, Wim Wenders: parliamo di Harry Dean Stanton, scomparso per cause naturali all’età di 91 anni, attorno cui ruota l’intera opera. Il tema portante del film è la vecchiaia, e quella soffice morte verso cui avvicina gli esseri umani, che non procura dolori corporei, che non si può prevedere, e che semplicemente rende ciclica la vita, la stessa fine a cui Lucky si sta affacciando suo malgrado quando il suo organismo inizia a lanciargli dei messaggi che il suo animo, forse immortale, non accetta. Il racconto del precipizio di un’esistenza che coincide con uno stato d’illuminazione totale: in questo consiste l’esordio alla regia dell’attore John Carroll Lynch (famoso per le interpretazioni in Gran Torino, Fargo, Zodiac, solo omonimo di David), che decide di dedicare interamente le energie del suo primo lungometraggio su Stanton, suo eterno maestro, neanche a sapere dell’imminente scomparsa, figura a cui dimostra tutta la sua gratitudine con un documento eterno, un film. Lucky è un atto di riconoscenza pura, un racconto sulle piccole cose che ci rendono umani, un testamento, una lettera d’amore a una carriera durata oltre mezzo secolo.  Stanton, dal canto suo, risponde con un’interpretazione magistrale, dandosi anima e corpo, denudandosi e sottoponendosi a sforzi, presenziando in ogni scena del film, non mollando mai un attimo la presa. Le lente sequenze iniziali, le lunghe camminate, le enormi distese polverose dove il tempo sembra essersi fermato o non essere mai esistito, e dove perfino lo spazio è difficile da localizzare, non possono che evocare opere come Paris, Texas (di Wim Wenders, 1984) o Una Storia Vera (di David Lynch, 1999), opere a cui Stanton aveva già dato il suo straordinario timbro interpretativo.

Mentre si entra in simbiosi coi tempi dilatati, l’ironia sottile e la struttura di un film come questo, a cui siamo difficilmente sottoposti nelle nostre sale sempre più voraci, senza alcuna ossessione estetica ma con la purezza e l’onestà intellettuale di un racconto agrodolce, si ha l’impressione che in Lucky ogni parola non venga pronunciata per caso ma abbia un senso molto più profondo, e che le intime e poetiche riflessioni sulla paura della mortalità, la solitudine, la spiritualità e le connessioni umane ne costituiscano un’ossatura straordinaria. Il tutto è filtrato da una leggera consapevolezza, quella scandita dai sottili dettami della sceneggiatura (di Logan Sparks e Drago Sumonja) e di una regia matura, che ne rivelano il carattere poetico e al contempo aspro, dove ogni significato supera il suo significante. Delicato, malinconico, onesto, toccante esattamente come il volto del suo protagonista, Lucky riesce a tradursi nella perfetta trasposizione della vita del suo one man show, quasi come se Stanton negli 88 minuti circa a cui assistiamo ripercorresse tutti i personaggi che ha interpretato nel corso di una carriera fatta di oltre 250 film, e senza pretese riesce a insegnare al pubblico che assiste, qualora ce ne fosse ancora la possibilità, a lasciarsi rieducare a un tipo di cinema puro, privo giochi di prestigio e manierismi ma che nutre chi lo guarda di emozioni, immagini meravigliose, e profonda commozione.

 

Luca Taiuti

Cresciuto per lo più a pane e film fin dagli albori della fanciullezza, laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Orientale di Napoli, ho sempre fatto del cinema la mia passione, la mia dipendenza, la mia ossessione, il mio amore, il mio sollievo, la mia inquietudine e, successivamente, il mio lavoro. Amo il teatro, che è nella mia formazione e nella mia quotidianità, e che mi ha permesso di scrivere e dirigere diversi lavori, tra cui alcuni cortometraggi, che hanno partecipato a festival e concorsi internazionali. Assistente alla regia per professione, critico per diletto, ma sognatore nella vita. email : [email protected]

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