L’isola dei cani

Giappone, 2037, dopo una dilagante pandemia di “influenza canina”, l’autoritario sindaco di Megasaki City, Kobayashi, decide di dare il via a una deportazione di massa dei cani dalla città all’Isola della Spazzatura. Sottoposta a una potente campagna di plagio delle menti, la gran parte dei padroni dimenticherà ben presto i propri amici a quattro zampe, ma non Atari Kobayashi, nipote dodicenne del sindaco e rampollo della famiglia, che, dirottando un aereo monoposto, si spingerà nelle malsane e desolate lande di quella che ora ha preso il nome di Isola dei Cani alla ricerca del suo fidato amico Spots.

Nelle prime battute del film, che dà prova fin dai minuti iniziali dello studio dei movimenti celato dietro ogni sequenza animata, la voce narrante colloca gli avvenimenti in un futuro genericamente prossimo, “tra vent’anni”, quasi augurandosi fiduciosamente la posteriorità di questo tempo distopico rispetto a qualsiasi altro spettatore futuro.

Lo stop motion, come anticipato, è curatissimo e studiato nei minimi dettagli e non sarebbe potuto essere altrimenti conoscendo la maniacale attenzione per i particolari del regista che anche stavolta ha deciso di dare grande peso alla forma, costruendo il proprio film con riprese perfettamente simmetriche e centrate e alternando inquadrature di “pieni e vuoti”.

La storia è in più punti fatta proseguire con brevi piani sequenza, grazie a dei movimenti di macchina che fanno scorrere le immagini come su un nastro trasportatore da una scena all’altra, limitando i tagli superflui e donando al film una piacevolissima leggerezza e scorrevolezza.

La scelta dell’ambientazione nipponica è un altro punto fondamentale da sciogliere: questa è stata per il regista sia un pretesto per sperimentare forme e colori esotici, sia un escamotage per rendere incomprensibili i discorsi degli umani, in più casi lasciati in giapponese, senza traduzione, mentre sono comprensibili i latrati canini, ponendoci ancora più vicini all’oppresso rispetto all’oppressore, aiutandoci a uscire fuori dalle logiche di specie.

Nonostante ciò, l’Isola dei Cani non è un film “animalista”, ma un film dal forte significato politico, nel quale i cani, gli ultimi, vita trattata al pari della spazzatura, vengono “democraticamente” (tramite il volere di un popolo plagiato da retorica e propaganda) deportati e abbandonati.

Sempre a fuoco nel corso della storia è l’ingenuità dei sentimenti più puri, che trovano voce nel sincero eroismo di Atari e nei dialoghi tra i protagonisti a quattro zampe, sempre pronti a ricordare con dolcezza – nonostante l’abbandono – i padroni ai quali continuano a manifestare devozione e fedeltà.

Latrati e abbai sono resi in lingua umana grazie a un grandissimo cast, e questo è un altro grande punto di forza del film: in lingua originale si possono apprezzare i doppiaggi di pluripremiati attori quali Edward Norton, Scarlett Johansson e Bill Murray, mentre in italiano, tra i tanti che hanno prestato le proprie voci ai personaggi, ci sono i veterani del doppiaggio Mino Caprio e Pino Insegno.

Wes Anderson, come Antoine de Saint-Exupéry, ha il merito di aver creato una storia leggibile su più livelli, da quello più puerile di una favola a lieto fine a quello più maturo di una rivoluzione degli ultimi; e in questa storia il piccolo Atari ricopre sia il ruolo di pilota precipitato nel deserto che di Piccolo Principe, estraneo alle logiche folli degli adulti.

Il finale, che in un primo momento può dare l’impressione di essere troppo inverosimile, è, vedendolo sotto un’altra luce, forse il finale più calzante per una favola che parla di amore, amicizia, fedeltà, e sa sovvertire più  volte in brevi istanti epifanici le identità dei personaggi, che nella visione sognante del regista sono capaci di trasformarsi da un momento all’altro, nel momento topico, in esseri migliori.

È forse questa la vera rivoluzione che aleggia nell’aria durante tutto il film e che con la sua regia, un meraviglioso Anderson, ci fa apparire credibile e possibile, tirando ad ogni scena i fili giusti per farci tornare – nei cento minuti in cui si snoda il suo film – bambini.

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