LA FIERA DELLE ILLUSIONI – La recensione di Nicolò Baraccani

Dopo quasi trent’anni di film e storie incentrati su mostri, fantasmi, creature fantastiche, in sostanza, su tutto ciò che è meraviglioso, alieno e soprannaturale, Guillermo del Toro sceglie di virare su un noir classicissimo, trasponendo, in maniera più fedele e funzionale, l’omonimo romanzo di William Lindsay Gresham, incentrato sulla figura di un promettente imbonitore, poi grande maestro mentalista Stanton Carlisle che, arrivato al successo, intraprende una strada che lo porterà alla perdizione. La fiera delle illusioni è una follia lucida. L’inserto alieno in un corpus di opere che parla di alieni. Una visione matura, complessa, pessimistica, ambigua e stratificata sull’importanza e il rigore, ed insieme sulla pericolosità delle illusioni, delle narrazioni, ad opera di un uomo che, nel fantastico, nell’artificio e nella messa in scena, ha sempre creduto moltissimo. Un film meraviglioso che ravviva ulteriormente il cinema deltoriano che, liberatosi delle gabbie soprannaturali, appare più sconfinato e stimolante che mai.

LA FIERA DELLE ILLUSIONI È UNA FOLLIA LUCIDA

La fiera delle illusioni di Guillermo del Toro è una follia lucida. Mi spiego meglio: soltanto uno come Del Toro sceglierebbe di scrivere e produrre un film come questo, dopo quasi trent’anni di film e storie incentrati su mostri, fantasmi, creature fantastiche, in sostanza, su tutto ciò che è meraviglioso, alieno e soprannaturale, su atmosfere fiabesche e orrorifiche, e su racconti che, attraverso il diverso, l’extraterrestre, l’obbrobrio o il prodigio, rileggono ed interpretano sempre malumori (perlopiù politici) del presente e della nostra realtà.

Per fortuna però, il messicano non è di questa idea ed insieme alla moglie Kim Morgan sceglie di trasporre – con maggior fedeltà e raziocinio funzionale e critico rispetto alla versione castrata, pudica e costretta del 1947 ad opera di Edmund Goulding – l’omonimo romanzo di William Lindsay Gresham. Un’opera chandleriana nelle atmosfere e dostoevskiana nella scrittura dei personaggi, oppure – parafrasando Tommaso Pincio nella postfazione dell’edizione Sellerio – la faccia più bastarda, arrivista, ossessiva, sporca e truce de Il grande Gatsby, che marito e moglie sintetizzano e traducono in un noir classico e lineare, in termini narratologici e drammaturgici, che, da un lato, riconferma ancora una volta, dopo La forma dell’acquala vasta conoscenza e l’amore del regista messicano per il cinema hollywoodiano classico [i richiami più evidenti sono alla sequenza onirica e allucinata di Dalì in Io ti salverò di Hitchcock e al plongée wellesiano varato in Quarto potere], inserendosi invece, dall’altro, nell’attuale filone autoriflessivo e psicoanalitico a cui si stanno abbandonando le ultime, grandi (prima a livello di proporzioni, poi di qualità estetica) produzioni statunitensi.

UNA SUBLIMINALE, IPNOTICA ED ALLUCINATA SEDUTA AUTORIFLESSIVA

L’ultimo ScreamMatrix: ResurrectionsWest Side Story di Spielberg: citando Giulio Sangiorgio, il cinema, in (quasi totale) mancanza di spettatori, si sta guardando allo specchio e sta riflettendo sulla propria essenza, sulla propria salute e su tutte le sue differenti e varie sfumature.

Ecco allora che Del Toro sfrutta un tradizionale racconto – tra Prometeo ed Icaro – del grande e giovane talento che, una volta raggiunto il successo, non si accontenta ed intraprende una strada che lo porterà alla perdizione, alla miseria morale e materiale, finanche (spesso) alla morte, volontaria od involontaria che sia; per mettere in scena una subliminale seduta terapeutica in cui il promettente imbonitore, poi grande maestro mentalista Stanton Carlisle (interpretato da un Bradley Cooper elettrico, cangiante, inafferrabile, assolutamente fenomenale) veste, in realtà, il ruolo del regista o, più generalmente, di tutti coloro che, a prescindere dal tipo di arte o di mestiere, fabbricano finzioni e narrazioni.

Il quadro risultante di questa seduta, stimolata dalla dottoressa e psicologa Lilith Ritter (una Cate Blanchett felina ed inebriante nel ruolo di una femme fatale d’eccellenza), è una visione matura (per il film più maturo della filmografia deltoriana), complessa, problematica, ambigua e stratificata sull’importanza e il rigore, ed insieme sulla pericolosità delle illusioni, delle finzioni, delle narrazioni.

Discorsi, questi ultimi, che La fiera delle illusioni rivolge ed imputa sia a coloro che questi artifici li creano, abbelliscono e rendono veri, sia a quelli invece che ne usufruiscono, spesso divenendone assuefatti o sovrapponendoli alla realtà sensibile. Ciò che ne consegue pertanto è l’idea del regista in questo caso specifico, come di una figura discutibile, equivoca, subdola e, soprattutto, moralmente disonesta, in quanto – così come fa il personaggio di Cooper con i gonzi a cui presta i suoi servigi illusionistici – si interessa ed innamora morbosamente delle crepe, delle ferite, delle cicatrici, dei lati bui delle sue vittime, che usa poi come codici di decrittazione dell’io su cui far leva per sedurle, affascinarle e (appunto) illuderle.

LE ILLUSIONI, A FORZA DI CREDERCI, FANNO MALE

Laddove allora il titolo italiano, La fiera delle illusioni, è probabilmente uno dei titoli più metatestuali mai concepiti, quello originale, Nightmare Alley (che, tradotto, significa letteralmente Il vicolo degli incubi), prima nel libro e poi nel film, allude viceversa al claustrofobico vicolo esistenziale, al vortice ipnotico e schizofrenico che incombe sul protagonista e su migliaia di altre persone, colpite (nel romanzo) dalla Grande Depressione o, nel caso della pellicola di Del Toro, dalle due guerre mondiali, e che quindi, esattamente come Stanton, credono fin troppo alle illusioni e alle promesse false, finendo per perdere la testa e quasi sempre facendosi male.

A tal proposito, malgrado, come sopra, si stia parlando effettivamente dell’inserto più anomalo della filmografia deltoriana, è impossibile non rintracciare, nelle lisce e piacevoli due ore e trenta de La fiera delle illusionii tipici e amati marchi di fabbrica dello stile, della poetica e del cinema di Guillermo del Toro.

A dir poco inevitabile è quindi l’immancabile svolta politica, riassumibile nell’ultimissima inquadratura della pellicola, dove, prendendo spunto dal testo di Gresham, il cineasta offre una semplice, ma perfetta e coerente rappresentazione dell’illusione e dell’artificio più grande di tutti: il Sogno Americano come mito del self-made man, della persona che ha successo perché è nata per quello; che diventa perciò un incubo beffardo, di dantesca memoria.

UNO SGUARDO NELL’ABISSO

Come non parlare poi dell’importanza e della priorità che il regista affida al valore, al design, all’estetica, alle scenografie e all’oggettistica delle proprie produzioni, al fine di costruire un mondo originale ed inimitabile che offre tutto sé stesso e sfrutta appieno tutte le sue possibilità nel lasso di tempo di cui dispone. Un aspetto, quest’ultimo, che ne La fiera delle illusioni si può rintracciare nel già iconico vasetto – facente parte della collezione del capo giostraio e direttore del circo Clem Hoately (un Willem Dafoe teatrale e drammatico) – con, immerso in una specie di liquido amniotico, un feto ciclopico, il cui occhio “ti segue ovunque, come quel dipinto” (un chiaro omaggio a Death Stranding, progetto videoludico a cui Del Toro ha recentemente partecipato).

Oppure nella sequenza in cui Stanton, chiamato a cercare un fuggitivo uomo bestia, si ritrova in una tipica Casa degli Specchi e, superato un vortice psichedelico e vertiginoso, entra in una stanza piena di occhi alle pareti. Quest’ultima altro non è che una puntuale ed efficace sintesi visiva del succitato discorso sul cinema, su chi lo fa e su chi ne usufruisce, i quali – mediante l’approccio disvelatore ed espositivo de La fiera delle illusioni nei confronti dei trucchi e degli inganni dei suoi personaggi – arrivano a guardarsi allo specchio, così come fa lo stesso Stanton con l’uomo bestia, il riflesso del sé futuro (come diceva qualcuno, “quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro”).

In tutto ciò, non bisogna però dimenticare il lavoro di un cast prezioso e mirabile che, oltre ai già citati Cooper, Blanchett e Dafoe, può vantare volti attoriali formidabili e solidi del calibro di una lasciva Toni Collette (la quale ha alcuni dei momenti più belli con il personaggio di Cooper, come la sensuale sequenza della vasca, che Del Toro inquadra in maniera ineccepibile), di un irriconoscibile Richard Jenkins, di una Rooney Mara enigmatica e costantemente in sottrazione, di un Ron Perlman che, nonostante il poco screentime, riesce a lasciare un’indelebile impronta di sé, ed infine di un David Strathairn più mentore e padre putativo, che non avversario amoroso (come avviene invece nel libro e nell’adattamento di Goulding).

IL LOGICO PUNTO DI ARRIVO DI UN CREDENTE DELLA MESSA IN SCENA

Dicevo dunque che La fiera delle illusioni è una follia lucida, ma vorrei espandere ed argomentare, aggiungendo e concludendo che, pur trattandosi di un inserto alieno in un corpus di opere che parla di alieni, l’undicesimo lungometraggio di Guillermo del Toro è anche e soprattutto la riprova di un cinema classicissimo, semplice e lineare, ma, al tempo stesso, irripetibile, inequivocabile e personalissimo.

In tal senso, il discorso molto maturo, anticonvenzionale, quasi teorico sul potere, sulle regole, sull’importanza, ma anche sulla pericolosità della finzione e dei racconti, appare come un punto di arrivo logico nella carriera di un uomo che, nel fantastico, nella finzione, nell’artificio (inteso anche, ma non solo, come effetto speciale) e, in particolar modo, nella messa in scena, ha sempre creduto fervidamente. Ne dà un’ulteriore dimostrazione proprio qui, in un film capace di costruire mondi soltanto attraverso il visuale, l’immagine, le anime artistiche della propria produzione, o anche, semplicemente, attraverso un cambio di tonalità ed un montaggio confezionato a regola d’arte da Cam McLauchlin.

UN FILM TRA IL NOIR CLASSICO, DOSTOEVSKIJ E CAMUS

La fiera delle illusioni inoltre è una pellicola che si rifà, sì – come il testo originale, del resto -, ai noir classici e alla letteratura dostoevskiana, ma che richiama, nell’iniziale scrittura dello Stanton Carlisle di Bradley Cooper, pure Lo straniero di Albert Camus. Bastano infatti anche solo lo charme, il mistero (ben corroborato da squarci onirici su un passato torbido e segreto) e l’iniziale mutismo di questo straniero – che giunge in una terra che sembra popolata da nani, ma che poi si scopre essere soltanto l’ultima pronipote del Freaks di Tod Browning; un mondo in cui egli impara la lingua degli uomini o, meglio, la lingua per ingannarli (ecco quindi che La fiera delle illusioni diventa un film in cui ogni parola è centellinata e al posto giusto, nel momento giusto, per un preciso scopo) – a coinvolgere, suggestionare e convincere lo spettatore ad entrare in questa casa degli specchi. In un testo che rincorre costantemente lo sguardo e l’animo del proprio protagonista, tentando di delinearne il passato e la psicologia, mentre questi scassina, decifra e delinea passato e psicologia degli altri.

CONCLUSIONI

Allora, pur non situandosi assolutamente ai livelli de Il labirinto del fauno e de La forma dell’acqua (che rimangono, per ora, le sue vette intoccabili), La fiera delle illusioni si rivela essere comunque un film meraviglioso, in cui i mostri ci sono (vi avevo forse illuso?, pardone – come sempre sostenuto e difeso da Del Toro – siamo ovviamente noi esseri umani, con le nostre cicatrici, i nostri traumi e la nostra impossibilità di sostenere un dialogo con la realtà, preferendo nasconderci ed ingannarci con la finzione e le illusioni. Insomma, malgrado non si possa certo definire il capolavoro deltoriano, La fiera delle illusioni, per la sua visione matura, cruda, pessimistica delle tematiche che affronta, è forse il primo, vero film da grande maestro di un regista il cui cinema, ora che si è liberato da un soprannaturale che stava diventando una gabbia ed un’etichetta limitativa, appare più sconfinato e stimolante che mai.

Nicolò Baraccani

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