IL PRIMO RE

Arriva nelle sale il kolossal sulla genesi di Roma, sull’antica leggenda dei fratelli allattati dalla lupa, insomma arriva nei cinema la scommessa formato pellicola targata Matteo Rovere, che spinge un po’ più in là i limiti del cinema italiano.

Il film, dubito sia uno spoiler dirlo, adatta e romanza non tutta la leggenda sopra citata, ma gli ultimi giorni di Romolo e Remo, subito prima della mitica fondazione della città Caput Mundi.

A chi è dedicato veramente il titolo del film? E perché nella locandina appare soltanto uno dei due fratelli? La risposta non è per niente scontata, e non si riesce alla fine a dirlo con certezza, perché durante la proiezione vediamo due personaggi che si contendono non solo il diritto di regnare, ma anche il ruolo da protagonista nella pellicola, dove prevale, come primum mobile dell’azione, chi forse non ci si aspetterebbe: Remo, interpretato da un magistrale ed animalesco Alessandro Borghi.

I due fratelli, il sopra citato Remo e Romolo (Alessio Lapice), vengono all’inizio travolti da una spaventosa esondazione del Tevere e poi catturati dai barbari guerrieri di Albalonga. Capaci però di liberarsi dal giogo della morte, o della schiavitù, assieme ad un altro manipolo di prigionieri, portano con loro il fuoco sacro, protetto da una misteriosa vestale (Tania Garribba). Romolo è però ferito, moribondo, e Remo è disposto a tutto pur di proteggerlo e trovare un “nuovo mondo” al di là del fiume. Ma superstizioni ferine e vaticini di fede cominciano a minare l’unione tra il gruppo, che elegge Remo suo condottiero e Re, ed anche tra i due fratelli, con Remo deciso a far valere il proprio amore, le proprie convinzioni, il proprio individualismo, a discapito del fato e della collettività.

Il film ha un fantastico Daniele Ciprì alla fotografia, che gioca soltanto con la luce naturale e con il fuoco delle torce. E questo in nome dello sfrenato realismo che guida il film, che porterà Rovere ed i suoi autori a girare tutto in esterna, a far arrivare un cervo portato dalla Romania perché di una razza presente nell’Italia del VIII secolo A. C. e, soprattutto, follia vincente del film, a far parlare i personaggi in protolatino. Ed i sottotitoli non rendono il film più pesante, perché esso ne acquista incredibilmente in espressività, dove la crudezza del tempo viene detta anche attraverso questo parlato arcano dai versi quasi animaleschi. Vi sono, del resto, poche parole nell’opera: urlate, spezzate, sussurrate tra le lacrime.

Il film, quindi, è sporco, grezzo, ruvido, primitivo e violento.

Non esiste niente, se non l’ineluttabile presente, nel quale e dal quale ci si deve difendere con ogni arma possibile: bastoni, sassi, unghie e denti. Come bestia ferita e coperta di fango, ma ancora pronta ad attaccare. Eppure, la patria dei consoli, generali, letterati, politici e artisti, nasce qui: dal sangue, dal ferro, dalla polvere e dal fango. Le fertili pianure sono ancora delle infide paludi, pronte a sbranare il timoroso. Ma nelle mani di assassini, briganti, reietti e uomini comuni si compie il fato di Roma e del Primo Re.

Ma prima che tutto ciò accada, vediamo come l’uomo antico viva nel terrore: terrore della fame, terrore dei barbari cittadini di Alba Longa, terrore degli dei; ma una vita passata nella paura, non è degna di essere vissuta. Infatti il vero protagonista del film potrebbe essere il potere ancestrale e trascendente del dio, fondato sul terrore. Remo comprende ciò, avverte perché gli uomini si prostrino, ed allora vuole suscitare quello stesso sentimento, diventando il proprio stesso dio e il sintomo di paura degli uomini, nonché il loro stesso Leviatano, capace non solo di mettere un freno all’homo homini lupus, in questo caso, ma di generarlo; anzi, di essere lui stesso il Lupo, l’unico.

Ma più che un Macbeth, questo Remo è un Riccardo III. Si inebria di potere, diventa superbo e perde sé nella sua immagine da egli stesso proiettata, e per questo muore. Lui, del resto, è ancora un baluardo del vecchio mondo ferino.

Però suo fratello Romolo, che cerca nella fratellanza degli ultimi la salvezza, è invece la speranza, il futuro. E affinché sorga il nuovo mondo, il vecchio deve bruciare.

Nell’ultimo sguardo dei fratelli, sotto la sporcizia e i capelli incrostati, in quella scintilla che brilla nei loro occhi, vediamo una gemma grezza e semplice: la grandezza di Roma.

Il Primo Re sta bruciando il vecchio mondo, affinché nasca la speranza di uno nuovo.

E’ imperfetto. E’ impreciso. E’ sporco, grezzo, ruvido, primitivo e violento.

Ma anche Roma lo era.

Claudio Fabbroni

Scenografo, produttore, fotografo e caratterista: tutte cose che non sono. Classe ‘99, dicono io sia studente di Filosofia e sceneggiatore e regista a tempo perso. Ho fatto parte della giuria per l'assegnazione del premio "Leoncino d'Oro" alla 75a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, scritto e diretto qualche opera low budget e lavorato su vari set. Amo Woody Allen, Jacques Tati e Groucho Marx. Odio la critica, le recensioni, l'incoerenza e l'umorismo. [email protected]

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