Il filo nascosto

Dopo Il petroliere, Paul Thomas Anderson torna a dirigere Daniel Day-Lewis in un pungente melodramma candidato a 6 premi Oscar.

Dieci anni fa l’incontro artistico tra l’astro nascente Paul Thomas Anderson, che veniva dai successi di Sidney (1996), Boogie Nights (1997), Magnolia (1999) e Ubriaco d’amore (2002) che lasciavano ben sperare, e del tre volte premio Oscar Daniel Day-Lewis, era la collisione che dava vita al pazzesco Il petroliere (2008), uno dei film più sontuosi e potenti della produzione cinematografica dell’ultimo decennio. Da lì in avanti, prova dopo prova, ecco la volta dei capolavori The Master (2012) e Vizio di forma (2014) nati dalla meravigliosa simbiosi del regista con quel folle di Joaquin Phoenix, dal talento puro. Oggi, dieci anni dopo, riecco lo stesso regista ripartire dallo stesso attore, Daniel Day-Lewis, l’interprete che ha consacrato il suo cinema. Ne Il filo nascosto Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è un grande sarto, un uomo difficile, un artigiano ossessivo e minuzioso. Vive nella grande casa che è anche il prestigioso atelier in cui da vita alle sue “creature”, abiti per donna di pregevole fattura. Vive con la sorella Cyril (Lesley Manville), unica donna che sopravvive e gli tiene testa nell’interminabile via-vai di muse ispiratrici di cui si nutre e che accantona, l’una dopo l’altra. Nella vita di Reynolds arriva poi Alma (Vicky Krieps), che riesce a scavalcare il rigido muro del suo cuore e a diventare complice parte integrante dei suoi schemi tormentosi. Ammesso che non sia solo un’ingegnosa trovata, improbabile ipotesi che qualche malizioso ha più o meno insinuato in vista di un suo possibile quarto premio Oscar, Il filo nascosto verrà ricordato sia per essere testimonianza di una delle interpretazioni più impetuose e complete della filmografia di Daniel Day-Lewis, sia per il suo inaspettato addio alle scene, decisione maturata e annunciata durante le riprese per motivi personali, di cui non è dato sapere altro. Per il suo ultimo film, Paul Thomas Anderson lo riporta nella nativa Londra, proprio in quegli anni cinquanta in cui lo straordinario attore vedeva la luce della propria esistenza (1957). Forse il contatto con la terra d’origine, ma più verosimilmente un estro giunto alla sua massima espressione, trasforma il tormento di un attore alla fine del suo percorso professionale nelle ossessioni di personaggio che supera i limiti della mania, quelle dell’industria della moda, ove vige il culto del dettaglio e della perfezione. Ed è grazie a queste che il regista californiano cuce la sua opera su misura del suo interprete, che per prepararsi è andato a imparare direttamente il mestiere con i costumisti del New York City Ballet.

Nel film si dispiega un gioco di ellissi, di simmetrie, di ritmi perfetti, dove la macchina da presa si muove morbidamente come una nuvola, che si nutre di delicati attacchi di montaggio, che spesso completano il movimento di una sequenza precedente con una seguente del medesimo andamento. L’armonia della forma, anche grazie alle qualità di un Anderson qui coinvolto in prima persona nella direzione della fotografia (firmata però collettivamente), fa del suo cineocchio un caleidoscopio che gli consente di indagare sulle emozioni che scaturiscono da occhi mesti, con grande sottigliezza psicologica e con disincantata semplicità, in linea con quell’essenzialità che è diventata nel tempo il marchio di fabbrica del cinema di Paul Thomas.  E così una cinepresa dietro una scatola, o un’automobile, o una teiera, diventano le espressioni più stravaganti del gioco andersoniano, dove uno stato d’animo e una condizione psicofisica sono evidenziati dalla macchina da presa in un’esperienza visiva e un’esplorazione spaziale intro-filmica totale, in cui ogni inquadratura rasenta la magnificenza. Siamo di fronte alla pura maestria, e non è un’eresia pensare a più riprese al cinema di Stanley Kubrick, soprattutto allo stile che aveva raggiunto in Barry Lindon (1975). La classe e l’eleganza della messa in scena fanno dell’arte del cucito un culto, un rito che cela nei tessuti la vita. È questa la vocazione e l’abisso in cui vive Reynolds, il cui genio lo rende un uomo di potere solo, al pari di un Charles Foster Kane di Quarto Potere (di Orson Welles, 1941), di cui qualche volta questo film più o meno romanticamente propone qualche eco.  Ma, come in ogni muro si cela una crepa, in ogni aspetto de Il filo nascosto si racchiude qualcosa di capillare, a partire dal suo titolo, che nasconde le iniziali del suo regista (Phantom Thread – Paul Thomas). E nel rigidismo del suo protagonista si cela un innato richiamo verso la massima espressione di quella liturgia della bellezza da lui tanto agognata: la donna. E proprio una donna rapisce la fascinazione di Reynolds e l’occhio di Anderson: Alma, interpretata dalla fenomenale Vicky Krieps, giovane cameriera che diventa la musa-manichino che Reynolds trova e abbiglia, prima di amare, una bellezza melanconica come la Suzon de Il bar delle Folies-Bergère di Manet (1934). Alma si ritrova imprigionata in un vortice di alienazione, un giudizio perpetuo, un continuo essere messa da parte al fronte della nobile vocazione del suo uomo, che si nutre del suo ego edella sua arte.

E proprio come l’inserviente dell’ultimo celebre quadro del pre-impressionista francese “potrebbe essere una dama del bel mondo se non fosse per la sgraziatezza con cui si appoggia al bancone”, così anche la leggiadra figura del personaggio di Alma, di una bellezza acqua e sapone, ha i suoi enormi limiti di delicatezza, che diventano uno dei meccanismi su cui si sviluppano le intolleranze di Reynolds e della riflessione del film; concetti sottili come fili di seta, aghi microscopici di una seduta psicoanalitica progressiva. Ad accompagnare l’interpretazione dei due protagonisti, lodevole è la performance di Lesley Manville, nei panni di Ciryl, fedele e fredda complice delle manie del fratello, manipolatrice e garante del buon proseguimento dell’attività familiare. Lo straordinario sfoggio di eleganza, raffinatezza e buon gusto che Anderson ci regala, ci guida per mano in 130 minuti ipnotici, irradiati da una colonna sonora che parte degli standard jazz e prosegue con le sinfonie di Fauré, Debussy, Brahms, Berlioz e Schubert, a cui si mescolano le frequenze sonore di Johnny Greenwood, tra i candidati agli Oscar per la miglior colonna sonora insieme al miglior film, migliore regia, il migliore attore protagonista Daniel Day-Lewis, la miglior attrice non protagonista Lesley Manville e i migliori costumi del sensazionale Mark Bridges, vero fiore all’occhiello di quest’opera. In questo percorso, alla cui metà assistiamo ad un dialogo da antologia, si arriva a un rovesciamento dei ruoli, dei meccanismi che saltano, gli stessi di un modo di fare cinema a cui Anderson ci ha abituati, ad una conflitto che diventa complicità, quella che nutre una storia d’amore fatta di un complicatissimo meccanismo di masochismo, un “filo nascosto” nella psiche umana che sfiora la poetica dostoevskiana. Tutto questo, e molto altro, fa di Paul Thomas Anderson uno dei più importanti cineasti del suo tempo, cioè di quelli che sono riusciti a confondere la definizione di film d’autore e il concetto d’industria cinematografica. In questo senso, oltre la maestria c’è solo la magnificenza, di cui Anderson sembra volerci donare ancora molto, speriamo ancora in compagnia Daniel Day-Lewis, l’interprete immenso che l’ha reso grande tra i più grandi di sempre.

 

Luca Taiuti

Cresciuto per lo più a pane e film fin dagli albori della fanciullezza, laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Orientale di Napoli, ho sempre fatto del cinema la mia passione, la mia dipendenza, la mia ossessione, il mio amore, il mio sollievo, la mia inquietudine e, successivamente, il mio lavoro. Amo il teatro, che è nella mia formazione e nella mia quotidianità, e che mi ha permesso di scrivere e dirigere diversi lavori, tra cui alcuni cortometraggi, che hanno partecipato a festival e concorsi internazionali. Assistente alla regia per professione, critico per diletto, ma sognatore nella vita. email : [email protected]

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