
I FIGLI DEL MARE
Per questa volta, scrivo (anche) in prima persona. Perché ho difficoltà a recensire I FIGLI DEL MARE: forse non dovrei neppure! Come valutare un’opera così complessa, dopo una sola visione?
I ringraziamenti più cari vanno ancora a DYNIT e NEXO DIGITAL, alla loro “cocciutaggine” nel portare in sala prodotti in animazione orientale: vendibili in streaming, meno in sala. E mai come stavolta, vendere un film simile è davvero dura. Soggetto basato sull’omonimo manga di DAISUKE IGARASHI, regia di AYUMI WATANABE (papà di un paio di film su Doraemon, mascotte cult degli anni ’90), produzione STUDIO 4°C, che ha finanziato film quali Steamboy (di Katsuhiro “Akira” Otomo), Tekkonkinkreet e Berserk. Infine, musiche del Maestro JOE HISAISHI, compositore storico per Hayao Miyazaki. Aggiungiamo cinque anni di lavoro e centinaia di animatori all’opera: ci si aspetterebbe un Capolavoro … ma si è andati oltre. Cos’è I figli del mare? Un pippone vuoto in “formato animato”? Un’opera che setterà nuovi canoni? Per il sottoscritto, è uno dei film migliori dell’anno. Non me ne vogliano Parasite, The Irishman o Joker, ma ancora una volta, l’Oriente (e il Giappone) ha dimostrato di avere un tocco in più (quando si affida il Cinema alle mani giuste). Non tanto per il concetto “bello” o “brutto”, ma per osare sforzare il cervello e l’emotività dello spettatore, stupendolo e schiaffeggiandolo nel profondo. Come pochi altri anime. Prima di Watanabe, l’unico a rischiare nella sperimentazione pura fu il compianto Isao Takahata: 7 anni di lavoro per donarci LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE, affresco fiabesco/storico riguardo il legame tra il divino malinconico e la mediocrità umana; ottima scrittura a parte, la tecnica d’animazione era completamente fuori dal tempo e dalle logiche di mercato: i lineamenti dei personaggi, i colori degli ambienti, la messa in scena stessa … tutto richiamava la pittura nipponica, un mix tra storyboard “non ridefiniti” e schizzi surrealistici. Meraviglia e coraggio non indifferenti. Nonostante il sonoro flop (che ha causato lo stand-by dello Studio Ghibli), è arrivato Watanabe a sperimentare ancore e dare una lezione all’intera industria. A modo suo, vista la trama: c’è una ragazzina (Ruka), ci sono gli adulti stolti, ci sono due fratelli “speciali” (Umi e Sora) connessi con l’ambiente marino e la natura. Due “divini” precipitati nel mondo umano. Gli animatori ricorrono al “classico”, che qui diventa “moderno”: gli occhioni dei tre ragazzini sono della “scuola anni ’70 e ‘80”, il disegno bidimensionale è quello standard dell’industria nipponica, ma le animazioni sono semplicemente mostruose. Tra movimenti ad alto frame rate (velocizzati di molto) e colori caldissimi, si assiste impotenti ad uno spettacolo visivo raramente raggiunto dall’animazione. I corpi, a tratti, sembrano sfumature in movimento rubate da un dipinto, arricchite da vitalità ineccepibile e mai invasivi inserti in CGI (i pesci che fungono da “personaggi sfondo”). La vera sorpresa sta nella sceneggiatura. Non è semplice “sopportare” due ore del film, le emozioni scaturite sono difficili da assimilare. La prima mezz’ora è un vero MIRACOLO: sullo schermo si scatena una magia indescrivibile e mentre l’occhio si abitua, la mente si bea di visioni meravigliose (c’è un omaggio IDENTICO ad una scena “di cammino” de LA CITTA’ INCANTATA … e lì il mio cuore ha battuto forte). Eppure, con l’introduzione di Umi e Sora, la narrazione cambia ritmo e si sussegue per accumulo di eventi; ciò crea confusione e non nego di aver provato fastidio in un paio di momenti, illuso di aver sbagliato film. Non mi interessava vedere nuovi personaggi (appena abbozzati), volevo perdermi nel silenzio dei disegni, nella musica, volevo saperne di più sui tre protagonisti.
“Ma quale capolavoro?” , ho pensato… e ho sbagliato.
Il film ci prende in giro, ma ha una struttura classica, quella che il Cinema non perderà mai. Tre atti distinti e separati: un’introduzione mastodontica, uno sviluppo lento e una conclusione letteralmente ESPLOSIVA. Se il ritmo rallenta è per entrare nella psiche dei personaggi: che importa se ne introduce alcuni “di troppo”? Sono contorni, formichine di un puzzle più grande, apparentemente senza senso … APPARENTEMENTE. La forza de I figli del mare sta nel raccontare una storia semplice e sotto-testi già visti, ma con una spavalderia mai intravista altrove, ricordando che il Cinema non è racconto: è IMMAGINI. E Watanabe OSA, si avvicina ad atmosfere degne di Stanley Kubrick, a quell’irraggiungibile 2001 – ODISSEA NELLO SPAZIO, alla psichedelia de ENTER THE VOID di Gaspar Noé. È la spavalderia dell’azzardo. La forza di rischiare e scuotere il Cinema dalle fondamenta. Da allori troppo stretti. Il racconto si analizza in più punti; Kuma è uno stereotipo degli anime, la classica ragazzina sola e disadattata, causa problemi più grandi di lei. E come potrebbe essere diverso, data la sua famiglia distrutta? Tra un padre assente e una madre con problemi psicologici? All’inizio per lei si prova pena mista ad odio, il carattere “difficile” non è facile da accettare (da chi si aspetta “principessine”), ma il cambiamento (l’inizio dell’estate, simbolo di infanzia e spensieratezza) scatta dall’incontro con i due fratelli. Inizia il secondo atto. Mentre il ritmo rallenta, si entra in confidenza con Umi e Sora: uno allegro e sognante come ogni bambino, l’altro freddo e silenzioso. Entrambi, in corpi umani, sono “reincarnazioni” di spiriti naturali, quelli che legano il mare al cielo e quindi all’universo stesso (ennesimi stereotipi). Essi sono facce del bene e del male, nessuno è condannabile né salvabile.
Sono umani. Introdurre personaggi “di troppo” è necessario, il tema non è analizzare rapporti tra i ragazzini, ma indagare la natura umana, in contatto con l’universo. Sì, ci sono scienziati “brutti e cattivi”, sì, studiano i due fratelli come cavie da laboratorio … ma non manca qualche collega adulto illuminato, comprensivo verso i due “diversi”. Watanabe fa parlare Umi e Sora, ma sta parlando direttamente per noi: non c’è intenzione di critica (in peggio) alle fragilità umane, ma ricordare che tutti siamo una parte del TUTTO, che non c’è differenza tra l’esplosione di una stella o la nascita di un bambino. Dove nasce un pianeta, può nascere un umano, se nasce un pesce nel profondo blu, si crea al contempo un atomo nello spazio.
Non è retorica. È un fatto. I due fratelli, tanto diversi quanto simili, indagano l’esistenza per riflettere sulla loro, bizzarra quanto unica e fragile.
Dopo parole e tanta confusione, inizia il terzo atto. E la magia si conclude.
Ciò che lo precede non è altro che una lunga introduzione (come lunga è la vita) ad un atto magico, di fede nel Cinema. Ciò che si sprigiona è un lunghissimo delirio acid-pop di colori allucinanti e forme animate folli, scandite dalle magiche note di Hisaishi. Una follia ravvicinabile al delirante e magico “viaggio nel vuoto” de Odissea nello spazio; alla genialità “sognante” felliniana; al delirio post-mortem de Enter the Void. Si assiste alla fecondazione, un’unione fisica e spirituale non più come nascita, ma RINASCITA. Esistenzialismo. Desiderio di rinnovamento dello spirito umano, accettazione del legame con l’universo. Comprensione di un disegno più grande, posto sulle nostre teste.
Divino? Scientifico? Chi lo sa? Le domande che il film pone sono infinite. L’intento è di travalicare una narrativa obsoleta e ridare gran voce alle immagini, ai suoni che si ergono potenti sullo schermo, che ci stritolano dall’interno, ci tengono senza fiato per mezz’ora e alla fine ci indicano l’uscita, fuori dalla sala. Con più dubbi che certezze.
La certezza è che Ruka, da ragazzina spaventata qual è e grazie all’amore, si fa simbolo dello spettatore: ritrova il coraggio e la gioia andati perduti e, mentre gli adulti intorno imparano qualcosa, sul finire dell’estate (e dell’infanzia) si prospetta un cammino nuovo. Una vita adulta migliore. Speranzosa e saggia.
Perché tutto ha un senso. E lo ha questo GRANDISSIMO film. Nei suoi limiti e nei suoi azzardi, capace di dividere ma anche unire.
Pronti ad accoglierlo?