Silvia Luzi e Luca Bellino | Il Cratere

IL CRATERE, in sala dal 12 Aprile con La Sarraz Distribuzione, è l’esordio nel cinema di finzione dei due registi Silvia Luzi e Luca Bellino.


Se pensiamo al Cratere ci viene subito il mente il Vesuvio, ma nel vostro caso si riferisce ad una stella. Come mai? C’è un legame tra questi due elementi?

Crater è il nome di una costellazione troppo luminosa per essere visibile. Si scorge nei cieli solo in primavera, e dal sud del mondo. Ma il cratere è tanto altro. Uno spazio  simbolico che prende vita in quell’amalgama di paesi ininterrotti che si estende attorno a Napoli lambendo i piedi del Vesuvio. Un universo autonomo e autoreferenziale, dolente e ridanciano, che non è Napoli, ma la sua estensione anonima, luminosissima e invisibile, proprio come la costellazione. E poi il film è pieno di crateri di animi in subbuglio, un ebollizione che cova come lava vulcanica. 

 

 Come si mantiene sul set l’equilibrio tra realtà e finzione?

E’ un film di finzione che parte da una sceneggiatura scritta. Ma lo stile che abbiamo scelto è volutamente ibrido, volevamo immergere lo spettatore in un territorio dove i confini tra realtà e finzione non sono definiti. Per raggiungere questo obiettivo ci siamo cuciti addosso un metodo di lavorazione, un metodo che andasse bene per noi e per la storia che volevamo raccontare. Il Cratere è un esperimento: una sceneggiatura scritta, la scelta di un padre e di una figlia che non avevano mai recitato, e l’inserimento di alcuni elementi della loro vita reale nella trama. Rosario Caroccia firma con noi la sceneggiatura perché alcune scene, a partire da quelle con i peluche, sono elementi che abbiamo inserito grazie al suo vissuto.

L’incontro con Sharon e Rosario come ha cambiato la sceneggiatura rispetto alla vostra prima stesura?

In sceneggiatura era già presente il ruolo della famiglia come punto chiave del racconto, come spazio nello spazio, cratere nel cratere. Rosario e Sharon però ci hanno permesso di lavorare a fondo sulle psicologie dei personaggi perché si sono messi completamente a nudo, e hanno accettato di interpretare dei personaggi molto diversi da loro stessi. Girando in sequenza poi hanno scoperto solo nel corso dei mesi di lavorazione l’evolversi della storia. In pratica hanno vissuto in contemporanea due vite parallele. Arricchendole entrambe. 

La Campania è una location scelta da molti registi. Cosa vi ha colpito di questa terra e cosa vi ha spinto a raccontare il mondo della musica neomelodica?

La musica neomelodica è solo uno spunto. Volevamo raccontare un archetipo universale, i sogni dei padri riversati sui figli. La prole che diventa veicolo di un sogno, di una scommessa. Una cosa che capita in ogni famiglia, ad ogni latitudine, in qualunque condizione sociale. Avremmo potuto raccontare una storia con al centro un piccolo campione del calcio, una nuotatrice, o una pianista. Abbiamo scelto la musica neomelodica perché rende tutto più rapido. Mentre con lo sport o con la musica classica i padri per vedere realizzati i propri figli devono attendere anni, con la musica neomelodica avviene tutto in fretta. Compri una canzone, paghi per cantarla in una tv privata e in un attimo hai il tuo riconoscimento sociale.

Il vostro primo lungometraggio è una storia al limite tra l’ossessione per il successo e la speranza di salvezza. Quanto è difficile oggi lavorare nel settore cinematografico e musicale?

Forse come in ogni altro settore, con la differenza che la musica e il cinema, se non ti saziano la fame almeno ti saziano l’anima. Non è certo come stare in un call center o in fabbrica. E’ un privilegio, e insieme una condanna.

Unione Cinema
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