Lazzaro Felice

Lazzaro felice è un film bizzarro, raccontato con una buona dose di quello che i teorici definiscono realismo magico e che, in termini prettamente materiali, si traduce in un grande atto di fede richiesto allo spettatore. Siamo infatti chiamati a credere e a seguire una vicenda contorta, senza una precisa datazione né chiari riferimenti geografici. Una storia drammaturgicamente carente o, comunque, non pienamente realizzata. Pur avendo vinto, a pari merito con un’altra pellicola, il premio per la migliore sceneggiatura a Cannes, il film della Rohrwacher lascia alcuni dubbi su quale sia l’intento dell’autrice. 

Ed è un paradosso perché nonostante tutto è innegabile la presenza di un protagonista forte e accattivante. Un giovane ingenuo e buono, un cuore puro, di quelli che ormai non esistono più, probabilmente. Lazzaro è chiamato alla santità, a servire gli altri senza mai un lamento, senza dubbi, senza esitazioni. Tuttavia questa “vocazione” non trova seguito nella vicenda ed anzi è soffocata dalle vicende degli altri personaggi, dal contorno ricco di spunti ma non altrettanto interessante. 

Il tono fiabesco ben si adatta alla vicenda iniziale del film e permette di esasperare la situazione dei mezzadri della marchesa De Luna senza renderla grottesca. Perfettamente inserito nel contesto di ingenuità emerge Lazzaro, il buono e sempre disponibile ragazzo figlio di nessuno e servo di tutti gli altri membri del clan. 

L’arrivo del figlio della marchesa, figura poco approfondita, introduce una novità nella vita di Lazzaro. Fra i due si crea infatti un rapporto di “quasi parentela” a cui però Tancredi, giovane viziato e approfittatore, che gioca a far preoccupare la madre fingendosi rapito, non attribuisce troppa importanza. 

Quando l’arrivo de carabinieri svela la menzogna della marchesa e conduce a libertà i contadini l’unico a non vivere il momento della liberazione è proprio Lazzaro che, a seguito di una caduta, giace senza sensi per terra. Al suo risveglio, che coincide con una vera e propria rinascita, tutto è differente. E’ passata una ventina d’anni, lo intuiamo dai paesaggi, dall’abbigliamento e dalla comparsa di personaggi visibilmente invecchiati. Lazzaro però è rimasto lo stesso, stessa coscienza, stessa fisicità e stessa mancanza di dubbi. Questo salto temporale mette a dura prova il patto narrativo con lo spettatore. Confonde e obbliga l’autore all’inserimento di una serie di espedienti piuttosto artificiosi che conducano la storia ad una fine plausibile. 

E questa, oltre che banalizzante, ancora una volta svia dall’ottimo lavoro fatto dalla macchina da presa. 

Da spettatori comprendiamo quanto gli “ultimi” stiano a cuore all’autrice, quanto il grande inganno perpetrato da chi ha potere possa alienare chi vi è sottoposto, comprendiamo anche che Lazzaro non può sopravvivere alla periferia della metropoli, che l’ambiente meschino contagia anche i cuori più puri. Accettiamo che i poveri mezzadri della marchesa, ingannati e sfruttati, vivano ingannando e sfruttando gli altri, i benestanti.

Ciò che forse non comprendiamo è cosa la vicenda di Lazzaro abbia da dire che già non sia stato detto. E’ forse un peccato dirlo ma, per chi è in cerca di buone storie, non è questa la pellicola migliore.

Annamaria Pesaresi

Riminese di nascita, romana di adozione, dopo la laurea in Giurisprudenza ho viaggiato e scoperto la passione per la scrittura. A Settembre mi sono diplomata in Sceneggiatura presso la Roma Film Academy di Cinecittà. email : [email protected]

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