JO JO RABBIT

I nuovi talenti sono sempre ben voluti, in un’industria cinematografica che perde pezzi per acquisirne nuovi. Taika Waititi è uno dei nuovi, forse quelli migliori. 

Comico neozelandese, si approccia al cinema con alcuni film scritti e diretti di suo pugno (Boy, Vita da vampiro, Selvaggi in fuga), tanto che Disney/Marvel lo agguanta subito per Thor: Ragnarok: l’indole grottesca dell’autore ben si sposa con il tono sopra le righe del noto “universo eroico” (checché ne dicano i detrattori), tanto da sbancare i botteghini e attirando, ancora una volta, critica e pubblico. La Disney deve averlo preso a ben volere (si vocifera di Watiti per i successivi Star Wars e Thor), tanto da dargli carta bianca per una sua nuova sceneggiatura originale. Quella sceneggiatura è diventata JOJO RABBIT, opera amata all’unanimità e nominata a ben 6 premi Oscar. 

Nell’attesa del responso dell’Academy, analizziamo perché questo gran bel film merita supporto.

Tratto dal romanzo Il cielo in gabbia (di Christine Leunens), è la storia di un ragazzino ingabbiato in un ideale sbagliato (nazismo) nella Germania dei primi anni ’40; è un ingenuo fanatico del regime, tanto da avere un “personale” Adolf Hitler come amico immaginario, una versione grottesca e bambinesca dell’originale (e meno male). Tutto cambia nello scoprire che Elsa, ragazzina ebraica, si nasconde in casa sua per sfuggire alle truppe naziste.

L’ Olocausto è sempre un tema delicato, dunque sempre perfetto da mostrare sullo schermo; non si contano le “trasposizioni”, dal nostrano La vita è bella al capolavoro Il Pianista, devastante affresco storico del più grave capitolo della storia umana. Fino a La Caduta, che ha analizzato nell’intimo la psiche del despota tedesco, grazie ad una grande interpretazione del compianto Bruno Ganz.

Altro modo per parlarne è la commedia e un personaggio come Hitler, già macchietta di suo, si presta perfettamente alla parodia (Bastardi Senza Gloria).

Waititi non è sprovveduto (è di discendenza ebrea) e sa come raccontare con giusto tatto una storia simile: se l’è scritta da solo, l’ha sentita sua, tanto da voler impersonare lui stesso, ottimamente, l “Hitler immaginario”. E infatti, all’uscita dalla sala, si sente perché, in questo 2020, la pellicola abbia grande valore. 

Chi si aspettava tanta cura estetica? La scenografia di Ra Vincent, i costumi di Mayes C. Rubeo e la fotografia di Mihai Mălaimare Jr. ci restituiscono una perfetta fotocopia di ciò che fu la Germania nazista; la luce calda del sole risplende tra i boschi, atti a nascondere la mostruosità umana, che forma bambini ad odio e distruzione (la Gioventù hitleriana). Essendo in campo comico, soldati e capitani sono ritratti come idioti, buffi, e pericolosi: i ragazzi sono educati alla violenza e le ragazze a “doveri femminili”, “attività minori”; in tal caso, è geniale la brava Rebel Wilson, interprete di una corpulenta soldatessa totalmente ritardata e cancerogena per una società civile (in particolare nei momenti finali): educa le ragazze a “sottostare” al maschio e a “sfornare figli per la Germania” … più folle di così!

Nel primo atto, le risate abbondano, con dialoghi intelligenti e scoppiettanti, atti a ridere della grettezza di giovani soldati tedeschi, “fieri” di prepararsi alla guerra ed educati ad autodistruggere sé stessi e chi c’è intorno. Complice una regia d’impatto (ottime carrellate e sapienti ralenti nei momenti più intensi), si empatizza subito con il bambino protagonista (un sorprendente Roman Griffin Davis), un po’ buffo (nella sua divisa nazista) e un po’ gracile e compassionevole: viene deriso dai compagni, non ha amici, se non un buffo bambino in carne (bravo Archie Yates) ed è orfano di padre sperduto in guerra, oltreché di una sorella morta. Gli unici a dargli supporto sono l’ Hitler immaginario e la madre Rosie, interpretata da una straordinaria Scarlett Johansson, la quale è come il vino: più invecchia, più migliora. Non si vede molto, eppure lascia il segno, donando calore e personalità ad un personaggio tristissimo, coraggioso e colmo della saggezza che solo una madre sa donare al figlio.

Inizia il secondo atto ed entra in scena l’ebrea, l’elemento che sconvolge il bambino. La ragazzina, consapevole della follia nazista, è l’opposto delle bambine spaventate degne di una pessima fiaba: è forte, decisa, feroce e ironica. Una donna matura bloccata in un corpo gracile, vogliosa di sbocciare, ma bloccata in un mondo ostile e pazzo. Jojo è terrorizzato, i suoi “ideali” si risvegliano, il “suo” Hitler, goffamente, lo mette in guardia e gli consiglia cosa fare contro il “mostro” … ma il bambino è curioso e finalmente ricorda di essere solo un BAMBINO, non un soldatino. Molto lentamente, si apre a lei, la fa esprimere, vuole scoprirne le origini e indagare la natura degli ebrei. Elsa, da perfetta ragazzina qual’ è, si prende gioco del bambino, gioca con lui e, involontariamente, si lega a lui. Lentamente, anche il tono del film evolve: la commedia nera apre le porte alla componente tragica che nasconde e tutto si incupisce; la fotografia, seppur accesa, sembra ingrigirsi contro le strade che accolgono ribelli impiccati, come fosse “naturale” esporre cadaveri in bella mostra. La cattiveria umana viene a galla e Waititi non lesina su essa: gioca sì con personaggi macchiette, ma le parole che mette loro in bocca sono terrificanti (grottesca e malefica la perquisizione della Gestapo, con un mefistofelico Stephen Merchant a fare da “capo”). 

Di contro, il regista racconta di amore, amore tra esseri umani, senza limiti idioti auto imposti; e nel farlo, mette a nudo tutti. 

Il nazismo diviene non più un folle ideale, ma uno specchietto per le allodole, una scusa per nascondere la solitudine umana di personaggi abbandonati da una società inutilmente divisoria; Jojo la esalta goffamente, ma in realtà è un bambino solo, che cerca compagnia e una guida per diventare adulto. La madre è una donna straordinaria: sarcastica e forte, ma che nasconde tanta fragilità, data la mancanza del marito. Elsa è una ragazzina costretta a “crescere per non crescere”, una piccola donna irrigiditasi per sopravvivere, ma nel profondo ancora inesperta, spaventata e abbandonata. E anche tra i nazisti si nasconde umanità, quell’umanità sopita e ruggente che si cela in un bravissimo Sam Rockwell, qui buffissimo capitano militare, tanto stupido all’inizio quanto ricco di carattere e passione, col progredire della storia.

Nel terzo atto, seppur si sorrida ancora, la tragedia prende il sopravvento: la follia nazista esplode, quella “civiltà incivile” sta per soccombere (siamo nel 1945, a fine guerra) e Waititi insiste sulla cattiveria. Esplode la violenza: soldati, persone comuni, perfino ragazzini sono gettati tra le braccia della morte, nel vano tentativo di difendere un ideale sbagliato. Ancora una volta, la m.d.p. la fa da padrone, con meravigliosi campi larghi e bellissimi ralenti, enfatizzanti umani che cadono giù come pupazzi (che non sono), contro la violenza causata dall’avanzata “nemica” (russi e americani). L’ottima regia e la bravura del piccolo Davis mostrano l’inutilità della guerra, la pericolosità con la quale menti pure e fragili come quelle dei bambini sono “educate” ad essa e di come la stupida persistenza in idee malsane non porti che a morte, fisica e morale, dell’individuo. Le buone musiche di Michael Giacchino enfatizzano emozioni contrastanti, di gioia e immenso stupore e dolore. Inoltre, l’ Hitler di Waititi diviene più sfaccettato: da macchietta quale è, questa figura immaginaria diventa metafora dei nostri demoni interiori, di quell’odio e quelle paure represse alle quali, per solitudine, abbandono o frustrazione, ci si affida troppo facilmente, con l’illusione di sentirsi “migliori”.

Metafora perfetta dei tempi attuali, nei quali l’odio e l’antisemitismo ritornano a galla, causa malessere e disperazione economica, sociale e umana.

Più le cose cambiano, più restano le stesse”, citava Kurt Russel sul finire de Fuga da Los Angeles (di John Carpenter). 

Eppure, il continuo “rigurgito” di divisione umana non dovrebbe esistere. Non dev’essere una scusante per creare altre barriere e illuderci di sentirci “salvi”.

Non si può (ancora) confondere l’odio per “ancora di salvezza”.

Non ci serve quello. Ci serve amore.

  • La fuori è pericoloso?
  • Estremamente!

cita il film … 

eppure, in questo mondo pericoloso, c’è sempre la speranza.

Di amare. Di migliorare. E di danzare.

Grandissimo film. Da supportare ad ogni costo.

Daniele Fedele

Mi chiamo Daniele FEDELE, ho ventisei anni e possiedo due lauree: una di fascia triennale in “Discipline delle Arti Visive, della Musica, dello Spettacolo e della Moda” e un’altra “completa” in “Scienze delle Arti Visive e della Produzione Multimediale”. Oltre ad un’esperienza come “addetto alla supervisione” presso la Biblioteca Comunale “Francesco Morlicchio” di Scafati (SA), dove risiedo, per un anno ho frequentato il Master di I livello in Cinema e Televisione presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, che mi ha consentito di iniziare un periodo di stage presso la MAD ENTERTAINMENT, che tanto ammiro per aver rilanciato l’animazione come genere e forma d’arte cinematografica in Italia. Seguo l’arte del cinema e dell’audiovisivo dall’età di sei anni, sono grande appassionato di tutto ciò che riguarda la settima arte, la musica, i videogiochi e in generale ogni elemento simile che colpisca ed arricchisca l’animo umano. Per quanto piena di ostacoli e sacrifici, non potrei cambiare la mia passione con nessun’altra: vivrei un’esistenza di stenti e rimpianti, in tutt’altro settore. Mi diletto anche nell’editing video da autodidatta e ambisco a diventare regista, sceneggiatore e/o montatore per l’audiovisivo. Per qualsiasi piattaforma. Tra i miei miti “cinematografici” ci sono: il mio “maestro spirituale” QUENTIN TARANTINO, che mi ha fatto comprendere di dover “vivere nella settima arte” e non solo “sfiorarla”, JOHN CARPENTER come “maestro dell’orrore umano”, STANLEY KUBRICK come “maestro della forma e sostanza”, SERGIO LEONE, DAVID CRONENBERG, TIM BURTON, GUILLERMO DEL TORO, NEILL BLOMKAMP, JAMES CAMERON, DAVID LYNCH, GASPAR NOE`, il Maestro HAYAO MIYAZAKI nell’ “animazione che scalda il cuore e arricchisce l’anima”, WALT DISNEY come “insegnante dei sogni”, ISAO TAKAHATA come “animatore neorealista” e altri ancora impossibili da elencare. Grande estimatore dello STUDIO GHIBLI e del PIXAR ANIMATION STUDIOS, che tanto mi ha fatto sognare con “TOY STORY” e piangere con “INSIDE OUT”. Tra i miei miti “sonori” ho ENNIO MORRICONE, HANS ZIMMER, gli M83, i DAFT PUNK, JOE HISAISHI, HOWARD SHORE e vari artisti delle colonne sonore quali NOBUO UEMATSU, la TOKYO PHILARMONIC ORCHESTRA e altri. E come non ammirare HYDEO KOJIMA per aver innalzato il media videoludico a “forma d’arte”? 

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