IL PRIMO RE

Guardando IL PRIMO RE di Matteo Rovere, si può esclamare solo GRAZIE, perché trovare esempi di cinema così coraggioso, in un panorama italico che tenta di risollevarsi da anni di pigrizia, è un miracolo.

Il pubblico è stanco, arrabbiato, stagnante nel marasma di commediole discutibili o drammi pseudo borghesi involontariamente comici; certo, non che siano mancati autori e film validi in questi settori, ma se c’era una cosa che mancava al nostro cinema è il GENERE.

È stupido rifare la solita retorica del “noi italiani siamo stati maestri nel mondo nell’horror, nel western, nel poliziesco ecc…”, dato che chi mastica cinema lo sa, ma sbaglia a non trasmetterlo ai posteri, viziati e drogati da troppo cinema americano troppo spettacolare e poco caloroso.

Il primo re è spettacolare e caloroso in giuste dosi.

Rovere ha già dimostrato coraggio con il precedente Veloce come il vento, un dramma sportivo raramente tentato in Italia, film credibile e ben recitato da un tossico e valido Stefano Accorsi e dalla scoperta Matilde De Angelis, giovane diva finalmente lanciata nel mondo dello spettacolo; con Groenlandia, la sua casa di produzione (in cui è di casa Sidney Sibilia) e una co-produzione italo-belga, punta ancor più in alto gettandosi in un affresco storico del mito di Romolo e Remo, i “padri” dell’impero romano; lo fa con una crew in gamba che ha ben poco da invidiare ai ben più grandi gruppi americani. Certo, non c’è il budget dei colleghi d’oltreoceano (siamo sugli 8 milioni di Euro, una cifra grande per noi “piccoli” italiani), ma l’autore ha sfruttato tutto ciò che aveva con sapienza ed eleganza.

Un applauso va agli operatori di macchina, che ci deliziano con inquadrature a tratti magistrali: la camera si muove di continuo nelle poche ma credibili sequenze di lotta, nelle quali non si eccede in spettacolarità inutile, ma nella verosimiglianza di ciò che si inquadra. Gli ambienti sono aperti, espansi, maestosi; i boschi sono infiniti, la luce del sole trapassa gli alberi rendendo perfetta l’atmosfera cupa e pericolosa che i personaggi vivono, grazie all’ottima fotografia del sempre bravo Daniele Ciprì (papà del criticatissimo film d’autore Totò che visse due volte). Un altro applauso va ai truccatori, che hanno infangato e insanguinato gli attori, regalandoci qualcosa che la stessa America non sa più fare: l’Epica. Non si vedono più divi hollywoodiani sporchi, logori, dai corpi sgradevoli, dai denti sporchi, dai visi deformi, dagli occhi storti … Rovere ci mostra ciò e non si può che ringraziarlo: la sporcizia e il sangue sono essenza della natura selvaggia in contrasto con gli umani che l’attraversano, lui lo sa e ce lo sbatte in faccia, come il fango e il sangue che lacera la pelle e i corpi.

Tutti gli attori e caratteristi sono credibili nei rispettivi ruoli, ma chi ruba la scena è un magnifico Alessandro Borghi, nuova star tutta italiana e attore poliedrico in molteplici produzioni: passare dal gangster al tossico, fino al Remo “roveriano” è uno scherzo per lui e non possiamo che essergli grato; lo segue un giovane Alessio Lapice, interpretando un gracile ma convincente Romolo, aiutato dal sempre ottimo trucco e da capelli e barbe lunghe e sozze. Menzione d’onore per Tania Garribba, una inquietante e credibilissima strega, vera chiave di volta di tutta la storia.

Si unisce al tutto la scrittura dello stesso Rovere, con l’aiuto di Francesca Manieri e Filippo Gravino, che scelgono un sapiente approccio al latino antico (sottotitolato in italiano) per rendere più verosimili i dialoghi mai pomposi degli attori, che ben traghettano i personaggi nella loro evoluzione e nel tempo del racconto (753 a.C.).

Volendo essere pignoli, si potevano evitare un paio di errori nel montaggio, ma ci si può chiudere un occhio.

L’elemento che più convince è la scrittura stessa; l’intento dell’autore era di riproporci un mito intramontabile, ma dal punto di vista umano, quindi fragile e distruttivo. I suoi personaggi sono più simili a bestie fameliche che ad “eroi”, si uniscono per sopravvivenza, in apparenza, ma i temuti Dei, sempre in bocca a Romolo e alla strega, si divertono a giocare con le vite dei loro “burattini umani”: esiste un mondo ultra-umano o è solo fantasia? Tutto può essere per Rovere, che inquadra gli attori come fossero cani sciolti spaventati dal “volere degli Dei” e che si abbaiano l’uno contro l’altro; sono tutte piccole pecore in un mondo ostile, in una “società” umana che si fa portavoce di volontà divine, ma che in realtà sopravvive con la violenza e l’ignoranza sul sangue dei più deboli (la fede, unita all’ignoranza, è sempre sinonimo di autodistruzione). In tutto questo, Romolo e Remo simboleggiano il bene e il male; uniti da un forte amore fraterno, sono divisi tra il divino e il terreno: il primo, più debole, teme gli Dei e cerca coraggio e risposte in essi; il secondo, più forte e sicuro di sé, sa come funziona la scellerata lotta terrena e, se in un primo tempo si dimostra autoritario ma saggio, viene poi accecato da quell’amore fraterno tanto sbandierato e rinnega le “catene religiose”, reagendo con maggior violenza di quegli avversari che si era promesso di affrontare e dai quali aveva promesso di proteggere i suoi compagni di viaggio.

Ne fuoriesce, alla fine, un viaggio di formazione di due anime tanto vicine quanto agli antipodi, che trovano il culmine in un finale violento, ma ricco di cuore, un cuore colmo di un amore che neanche la morte riesce a dividere. Non si riesce ad odiare fino in fondo Remo per le azioni che compie, né si prova fastidio per Romolo: sono personaggi profondamente umani e come tali fallimentari, come fallimentare è la genesi di una civiltà che, appunto, non può che nascere nel sangue (la genesi dell’America insegna).

La Storia deve insegnarcelo. E ad aiutarla dev’esserci questo Buon Cinema.

Smetto quando voglio di Sibilia ha rilanciato la commedia italiana “macchiata” di action; Lo chiamavano Jeeg Robot ha lanciato il superomismo in un contesto nostrano e realistico; Il racconto dei racconti ha dimostrato come il fantasy possa essere anche di stampo italico; Gatta Cenerentola ha ridato credibilità alla nostra animazione; Il vizio della speranza ha ridato vigore al nostro dramma, The End di Daniele Misischia e Suspiria di Luca Guadagnino hanno riportato l’horror di livello a casa nostra … e ora Il primo re ha lanciato l’epica, l’avventura e la storia nel nostro cinema.

Grazie Italia.

Daniele Fedele

Mi chiamo Daniele FEDELE, ho ventisei anni e possiedo due lauree: una di fascia triennale in “Discipline delle Arti Visive, della Musica, dello Spettacolo e della Moda” e un’altra “completa” in “Scienze delle Arti Visive e della Produzione Multimediale”. Oltre ad un’esperienza come “addetto alla supervisione” presso la Biblioteca Comunale “Francesco Morlicchio” di Scafati (SA), dove risiedo, per un anno ho frequentato il Master di I livello in Cinema e Televisione presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, che mi ha consentito di iniziare un periodo di stage presso la MAD ENTERTAINMENT, che tanto ammiro per aver rilanciato l’animazione come genere e forma d’arte cinematografica in Italia. Seguo l’arte del cinema e dell’audiovisivo dall’età di sei anni, sono grande appassionato di tutto ciò che riguarda la settima arte, la musica, i videogiochi e in generale ogni elemento simile che colpisca ed arricchisca l’animo umano. Per quanto piena di ostacoli e sacrifici, non potrei cambiare la mia passione con nessun’altra: vivrei un’esistenza di stenti e rimpianti, in tutt’altro settore. Mi diletto anche nell’editing video da autodidatta e ambisco a diventare regista, sceneggiatore e/o montatore per l’audiovisivo. Per qualsiasi piattaforma. Tra i miei miti “cinematografici” ci sono: il mio “maestro spirituale” QUENTIN TARANTINO, che mi ha fatto comprendere di dover “vivere nella settima arte” e non solo “sfiorarla”, JOHN CARPENTER come “maestro dell’orrore umano”, STANLEY KUBRICK come “maestro della forma e sostanza”, SERGIO LEONE, DAVID CRONENBERG, TIM BURTON, GUILLERMO DEL TORO, NEILL BLOMKAMP, JAMES CAMERON, DAVID LYNCH, GASPAR NOE`, il Maestro HAYAO MIYAZAKI nell’ “animazione che scalda il cuore e arricchisce l’anima”, WALT DISNEY come “insegnante dei sogni”, ISAO TAKAHATA come “animatore neorealista” e altri ancora impossibili da elencare. Grande estimatore dello STUDIO GHIBLI e del PIXAR ANIMATION STUDIOS, che tanto mi ha fatto sognare con “TOY STORY” e piangere con “INSIDE OUT”. Tra i miei miti “sonori” ho ENNIO MORRICONE, HANS ZIMMER, gli M83, i DAFT PUNK, JOE HISAISHI, HOWARD SHORE e vari artisti delle colonne sonore quali NOBUO UEMATSU, la TOKYO PHILARMONIC ORCHESTRA e altri. E come non ammirare HYDEO KOJIMA per aver innalzato il media videoludico a “forma d’arte”? 

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