Glass
Pare scontato che in sala, oggi, escano film sui supereroi come nulla fosse; è ormai un sottogenere ben avviato, dal facile consumo e dal ritorno economico sicuro (al di là del valore di ogni singola pellicola). Non dimentichiamo, però, che il “genere” era stato affrontato decenni prima che diventasse una moda, un fenomeno di costume e un “universo cinematografico”; prima della Marvel e della DC ci eravamo arrivati noi italiani negli anni ’70 (Diabolik di Mario Bava, fautore di innovative tecniche di messa in scena, quali un primitivo “green screen”), seguiti poi dalla Warner Bros. vent’anni dopo con la saga discontinua di Batman (Tim Burton ci ha regalato, forse, le migliori pellicole sull’uomo pipistrello), fino al nostro ventunesimo secolo, dove il superomismo diventa virale e dispendioso, ma che riaccende le passioni (vecchie e nuove) dei fan delle storie a fumetti.
Ma prima di tutti, prima di Sam Raimi (Spider-Man) e Guillermo Del Toro (Blade 2, Hellboy 1 e 2) e prima dell’acclamato MCU (nato con l’Iron Man di Jon Favreau), un grande autore aveva affrontato il tema in modo maturo, con quell’Unbreakable dai toni freddi, dall’atmosfera plumbea e che narrava le origini di un nuovo supereroe che non proveniva dalla carta stampata dei fumetti, ma che ne rispettava l’anima e l’analizzava in relazione con un universo più realistico (prima di Christopher Nolan). Quell’autore era M. Night Shyamalan, nuovo re Mida della Hollywood dei primi anni 2000, che aveva stupito tutti con Il Sesto Senso, ma che, dopo un’ottima partenza, è andato a perdersi in progetti discontinui (Signs, E venne il giorno) e flop (Lady in the Water, L’ultimo dominatore dell’aria, After Heart); grazie al produttore “di serie B” Jason Blum (suoi vari horror low budget quali Paranormal Activity), il regista indo-americano è tornato in auge con il bel The Visit, falso documentario che ne distrugge l’essenza per riavvicinarlo al “cinema classico” e tornare a spaventare, salvo poi stupirci di nuovo con quello Split che ha rimostrato tutta la sua voglia di raccontare con fantasia e amore, coadiuvato da un James McAvoy superlativo spezzatosi in “più ruoli” e dal colpo di genio di un finale aperto che ci mostra l’eroe Bruce Willis de Unbreakable.
Ecco che l’autore si collega all’ottica seriale di casa Marvel e DC, ecco che crea i suoi superuomini e il suo universo cinematografico: con Unbreakable crea l’origine di un supereroe (Willis) e una super-mente del male (Samuel L. Jackson), con Split crea l’origine di un supervillain (McAvoy) e con questo GLASS riunisce tutti e tre per narrarne l’evoluzione e la catarsi, all’interno di una clinica capitanata dalla psichiatra Sarah Paulson che ne analizza psicologie e fragilità.
Già prima della sua uscita, la pellicola è stata criticata pesantemente, apparendo come un’analisi del superomismo non al passo con i tempi, troppo cupa e lenta rispetto ai più scanzonati Marvel movies … ma è davvero così?
Parliamoci chiaro: Shyamalan non ha alcuna intenzione di dare intrattenimento spicciolo al pubblico, non ama le atmosfere colorate e Il Sesto Senso lo dimostra: ama il dark e ce lo sbatte in faccia senza fronzoli (quando è in vena), ama mettere al centro i personaggi, analizzarli, denudarli e coccolarli, fino a stupirci con l’amato plot twist finale (ancora Il Sesto Senso, che ha fatto scuola per questo).
È indubbio che sia un esteta di gran livello, regalandoci una fotografia cupa di classe, scenografie minimali ma di livello e sapienti movimenti di macchina dei quali ne ha fatto un marchio di fabbrica (primi piani stretti, piani sequenza insistenti) e, coadiuvato da una buona colonna sonora di West Dylan Thordson (sua anche l’ottima musica de Split), realizza atmosfere notevoli che ben rendono il dramma, l’ascesa e la decadenza del trio di protagonisti.
Inoltre, l’idea di ambientare quasi tutto in un ambiente (una clinica) e di ridurre le scene d’azione (girate con classe, nonostante il budget ristretto) è funzionale alla poetica dell’autore che fa un vanto della lentezza narrativa, a dispetto dei tempi moderni basati (troppo) sulla “corsa narrativa”, a discapito di buone sceneggiature (Hollywood ci ha abituati bene ai peggiori pop-corn movies); il voler psicanalizzare il trio e di convincerli della non esistenza di “superpoteri” è una scusa per mettere a nudo i traumi e le debolezze, mostrandoceli per quello che sono nel profondo: Willis è sì un eroe, ma nella vita di tutti i giorni è un triste uomo comune che vive ai margini della società; McAvoy è stato vittima di abusi infantili ed è schiavo di multiple personalità che ne hanno minato la psiche; Jackson è un genio e grande amante delle storie dei (super)fumetti, ma nel concreto è un freak dalle ossa fragili costretto su una sedia a rotelle: tutti e tre sono incapaci di una vita normale, di avere legami normali … tolti i poteri cosa rimane?
Poco.
Come poco siamo noi “comuni mortali”.
Il trio di freaks è simbolo di noi stessi, intrappolati in esistenze banali e vuote, bisognosi di affidarci a qualcosa (la fede è un tema ricorrente di Shyamalan), come le storie di “dei in calzamaglia”, per sentirci migliori, a discapito di un mondo ostile che ci sopprime.
Per l’autore, in un mondo “realistico” il concetto di “super” equivale al “diverso”, quel diverso che la nostra società, razzista e discriminante, non vuole far venire a galla; dunque, non esiste bene e male, non esistono azioni giuste o sbagliate: esistono solo persone che soggiogano altre persone, ferite, imperfette e profondamente umane che tentano di innalzarsi (vedasi il finale) e scoprirsi migliori o forse veramente per ciò che sono nel profondo.
E quale miglior modo per capirlo se non grazie ai fumetti? All’arte? Alla cultura? E al Cinema?
Certo, si possono trovare falle di sceneggiatura (nella parte centrale) o passaggi narrativi un po’ frettolosi, ma nel complesso sono anch’esse parte del grande gioco del regista e del messaggio serio, tragico e romantico che egli vuol darci.
Buona prova d’attori, con un Willis invecchiato ma ancora convincente, Jackson sempre bravo, una buona Paulson e un titanico McAvoy; dispiace che Anya Taylor-Joy si veda molto poco, ma fa ancora una buona figura, con il personaggio più “amorevole” del film.
È veramente un film fallito?