Ghostland – La casa delle bambole
Che il cinema horror affoghi in un oceano di cliché e stereotipi è chiaro a tutti i fan, quanto il fatto che esso rappresenti delle pellicole “controverse” che attecchiscono solo una fetta di pubblico: l’altra lo “rinnega” con pregiudizio, per mantenere intatta la mente dalla visione di immagini forti (per quanto finte). Dovrebbe avvenire l’opposto: avere timore, accompagnato da curiosità, il desiderio di sfidare fino in fondo i propri limiti e forse maturare nuove sensibilità; come un bambino terrorizzato da una biscia, ma al contempo troppo curioso nel volerla toccare.
I migliori esponenti del genere hanno sempre esercitato questo “dualismo”, nonostante distribuzioni limitate in Italia e nonostante il nostro (Bel) paese abbia fatto scuola nel mondo con maestri quali Mario Bava, Dario Argento e Lucio Fulci, tra i tanti; la più influenzata è stata la Francia, che nei primi anni 2000 ha “copiato” bene, donandoci pellicole quali Alta Tensione, A’ l’interieur e Frontiers.
Tra i nuovi talenti, come un grido nelle tenebre dell’ignoto, è spiccato Pascal Laugier, controverso e talentuoso autore che si ruppe le ossa con il flop Saint Ange, cadde in depressione e ne uscì partorendo il cruento capolavoro Martyrs, un film che ancora oggi lacera l’anima (difficile digerirlo e rivederlo, ma che una volta entrato “nel cuore” non ti lascia più); inglobato dall’America con il criticato I bambini di Cold Rock, il regista è sparito per anni, ma la voglia di raccontare e scioccare è ancora tanta: lo dimostra questo bellissimo GHOSTLAND – LA CASA DELLE BAMBOLE.
Come definire questo film, a poche ore dalla visione e dallo stordimento (positivo)?
Prendiamo una casa abbandonata e lugubre, aggiungiamo una fotografia cupa, un cast per la maggiore al femminile (le donne sono le vittime perfette in questo genere), un paio di folli killer, un’atmosfera sporca e grida a non finire.
Mescoliamo tutto e cosa avremo?
Il solito piatto annacquato?
Dipende.
Se a mescolare fosse un regista qualsiasi, la risposta sarebbe sì, ma lo chef è Pascal Laugier.
Che egli ami l’horror in toto è (troppo) evidente, lo ama a tal punto da omaggiare tutti i suoi miti: ci sono le bambole spettrali de Profondo Rosso (Argento), le scenografie oscure de Quella villa accanto al cimitero (Fulci), il disordine e le urla de Non aprite quella porta (Tobe Hooper) e addirittura “comparsate” del maestro letterario Howard Philip Lovercraft. Come in un racconto dell’omonimo scrittore, Laugier mette in scena una pura storia di follia, scaturita da un’ente esterno (“mostri”) estraneo alla logica umana; non ci è dato trovare una ragione all’improvvisa comparsa del male: esso c’è, bisogna tuffarcisi dentro e affrontarlo, fuggirlo gli da solo forza per crescere. Così come accade alle due sorelle protagoniste: una, amante della scrittura (di Howard Philip, ovviamente), la seconda frivola e spaventata dalle “stramberie” della prima. Entrambe, accompagnate da una madre “giovanile” (bellissima Myléne Farmer), si trasferiscono nell’oscura casa di una vecchia zia, ma con loro piomberà anche il male.
Il male puro.
E qui il regista regala il colpo di genio; nel vivo delle prime violenze, la narrazione viene interrotta e si piomba in un’altro ambiente, con nuovi personaggi e una fotografia più luminosa. I primi minuti del film appaiono, dunque, come una lunga introduzione al vero racconto, un flashback prima del fulcro della vicenda … ma l’incubo è solo iniziato. Ed ecco che l’autore ci riafferra con brutalità e ci risbatte tra le orribili violenze perpetrate ai danni delle due ragazzine. Tra jumpscare (non inutili), pianti e grida, il senso della realtà è sempre più labile, chi guarda non coglie il senso delle sequenze e vorrebbe scappare … ma come fare ad abbandonare un racconto così intrigante (e intricato)?
Proprio come la scrittura di Lovercraft (e del miglior horror), non bisogna cercare la logica, la “realtà”, perché quando il male è a briglie sciolte nulla ha più senso, nulla è più come prima. E rinchiudersi in un mondo illusorio è controproducente (una delle protagoniste ama la scrittura, la fantasia), porta all’autodistruzione.
In un modo o nell’altro, la morte è vicina.
Proprio come in Martyrs, l’universo del film (e non) si divide tra vittime e martiri; ogni categoria ha delle conseguenze, ma solo una dev’essere la strada per andare avanti.
Chi sono i killer? E che importa? Ci sono, fanno paura, fanno cose insensate e inquietanti … che fare? Fuggire e perire egualmente o provare a lottare?
La metafora è chiara, per Laugier e per noi spettatori.
Aggiungiamo una regia sapiente, movimenti di macchina a volte “lisci” e a volte “ruvidi”, con soggettive argentiane, montaggio serrato alla Rob Zombie nei momenti più forti, sagge citazioni (una sequenza storica da Shining) e un cast azzeccato (Crystal Reed, Anastasia Phillips, Emilia Jones e Taylor Hickson: quartetto sublime).
Ecco il nostro piatto: il più vecchio del mondo, ma cucinato divinamente da chi sa come usare i mezzi. E la fantasia.
Non è buono come Martyrs … e che importa? Bontà simili si contano sulle dita e quando ci sono vanno assaporate tutte.
Fino in fondo.