CLIMAX

Il nuovo film di Gaspar Noé è un’esperienza mistica di pura follia collettiva e di orrore patinato che ripercorre (quasi) tutta la poetica visiva del suo regista.  

Francia, 1996. Una compagnia di danza contemporanea si rinchiude in una vecchia scuola abbandonata, nei pressi di una foresta, per provare per tre giorni uno spettacolo prima di partire per una tournée. Dopo le prove e gli allenamenti, la compagnia organizza una festa per rilassarsi e divertirsi. Qualcuno di loro ha però versato una sostanza allucinogena nella sangria, dando luogo a conseguenze devastanti. Per ognuno di loro inizia un viaggio nella follia e nell’orrore in un delirio collettivo dagli sviluppi tragici.

Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, girato in 15 giorni partendo da una sceneggiatura-canovaccio di appena 5 pagine e utilizzando un cast composto interamente da ballerini professionisti senza alcuna esperienza recitativa (ad eccezione di Sofia Boutella e Souheila Yacoub, uniche attrici professioniste), il penultimo film dell’eccentrico Gaspar Noé (l’ultimo, Lux Æterna, non conosce ancora distribuzione ed è stato presentato fuoriconcorso al festival di Cannes 2019) ripercorre gran parte della poetica visiva estrosa e tematica estrema del suo regista. È innegabile che ci si trovi di fronte a un tipo di cinema non adatto a tutti, o meglio, tutti non sono adatti a questo genere di film, soprattutto i deboli di pudicizia. Seppur lontano dal voyerismo più spinto delle sue opere, quello di Gaspar Noé è comunuque un cinema che non conosce freni inibitori, come spesso ha dimostrato, basti pensare al suo porno psicologico Love (2015), o anche al conturbante Enter the void (2009), autentici gioielli che si nutrono di un immaginario tanto sensuale quanto perverso e dell’autocompiacimento del regista argentino. Ma non c’è solo questo in Climax. E non ci sono nemmeno “solo” i soliti tagli d’inquadrature da cineamatore, con un tappeto sonoro di musica elettronica che reinventa alcuni classici della disco-music e brani dei Daft Punk, Rolling Stones, Giorgio Moroder, Aphex Twin, che sostengono i colori sgargianti dei neon in uno stile patinato oltre i limiti. È una forma, quella di Noé, che si supera di volta in volta e che guarda con occhio di sfida a riferimenti di estetica totalizzante più difficili da raggiungere. Non sono solo gli espedienti visivi che vanno dalla Nouvelle Vague e che finiscono al modo di fare cinema di un Malick in The tree of life e un Iñárritu in Birdman, a comporne i segni di distinzione di  Climax. Tutto questo fa sicuramente parte di un linguaggio dinamico che ingolosisce soprattutto i palati più giovani e in generale un grande pubblico, per quanto l’autore rinneghi il consenso di massa. Gaspar Noé non nasconde di essere un virtuoso, lo dimostra ogni volta che usa la macchina da presa a mo’ di caméra-stylo, seguendo i suoi attori-pedine in lunghissimi e magnetici piani sequenza (la seconda parte del film è una scena di quasi 42 minuti), spesso con stacchi invisibili, che parte dai personaggi, li segue, li capovolge, e si contorce insieme a loro,  vorticando attorno ai loro corpi quasi come se potesse rendere esperienza visiva e percettibile le emozioni, dall’estasi al malessere puro. Corpi che s’intrecciano creando figure suggestive mentre ballano e si sfiorano, mutando la danza in espressione della ferocia del proprio subconscio irrequieto e insaziabile. I riferimenti drammaturgici di Noé sono chiari, e sono esplicati nella scena iniziale dei provini, dove possiamo vedere ai lati di un televisore libri e film che hanno ispirato il regista per la realizzazione del film, tra cui Suspiria di Dario Argento, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, Un chien andalou di Luis Buñuel e Zombi di George A. Romero.

Il regista ottiene in questo film dai suoi performer, a cui è  stato principalmente chiesto di improvvisare e che si dice abbia preparato con una raccolta dei migliori video che ha potuto trovare sulla rete di persone sotto effetto di crack, ecstasy e altri acidi, delle prove  interpretative straordinarie.  Riesce, attraverso la plasticità dei loro corpi e la frenesia dei loro movimenti a far scorrere con ritmo e fluidità scene di per sé molto lunghe. Su tutti spicca inevitabilmente la delicatezza e la malinconia di Sofia Boutella, attrice di punta della pellicola. La regia gestisce i personaggi in gruppo nelle elaborate coreografie, e in coppia nelle parti di drammaturgia più intime. Mini episodi continui, veloci stacchi a nero, dialoghi grotteschi e politicamente scorretti sulla vita, sui rapporti, sugli eccessi, sui desideri sessuali di ragazzi in preda alla post-adolescenza, su problemi sentimentali e stimoli ormonali. Situazioni dense di un nulla che contraddistingue la generazione che rappresenta. Il regista costruisce una narrazione sospesa, e il nulla citato getta gli individui in una psicotica incertezza che rivela i loro lati peggiori. Il microcosmo asfissiante di Climax si tramuta nella discesa in un girone infernale di anime in pena attratte dal fantasma della morte dove, come figli della violenza, prendono parte a un ansiolitico incubo e diventano corpi ossessionati che ballano a oltranza, anche durante il dolore, e nel delirio. Un cartello, di quelli alla Gaspar Noé, quasi sul finale ci esplica, qualora ce ne fosse bisogno, il messaggio principale del film: “Vivere è un’impossibilità collettiva”. È proprio questo quello che sembra raccontarci l’incubo onirico a cui assistiamo: la destrutturazione di qualsiasi dimensione sociale nell’azione e nel pensiero umano in cui si immergono gli individui è l’amara constatazione che non riusciamo a esprimere i nostri sentimenti con azioni e concetti degni di questa nomea. Siamo banali, e dove ci porta questa banalità? A un’immensa catena d’insoddisfazione, incomprensione, dolore. Così, fagocitati dalle allucinazioni della droga, i personaggi tramutano la propria percezione della realtà in paura. Il film si trasforma quasi in un horror psicologico, di quelli alla Shining e alla Repulsion. I protagonisti spesso si limitano ad osservare passivamente le azioni dell’altro, incapaci di imporsi sull’evento, essendo vittime e carnefici al contempo, in preda a uno smarrimento e nella dannazione dell’oscurità generata dalle loro menti. Il sonno della ragione genera mostri, potremmo dire, come ci trovassimo di fronte allo spirito macabro di un quadro di Francisco Goya. Climax è dunque un’esperienza mistica di grande forza, di pura follia collettiva, di violenza estrema e di orrore patinato. Non il miglior film di Gaspar Noé, probabilmente, ma un’opera di notevole impatto. Il caos e la solitudine sono i temi che lo accompagnano. Il primo condiziona anche lo spettatore, completamente immerso, assorbito, intontito da ritmi e immagini, narcotizzato dall’esperienza visiva fatta di sovrapposizioni d’identità e sentimenti. La solitudine invece, tema già affrontato ampiamente dal regista nell’ipnotico Solo contro tutti (1999), è evidente nei primissimi piani, dove l’emarginazione dell’individuo diventa l’unico elemento messo a fuoco. Si nasce da soli, si muore altrettanto soli: questo sembra raccontarci Gaspar Noé. Non esistono in natura convenzioni sociali. Ogni legame, sia esso amoroso, amichevole, familiare o sessuale, viene distrutto dalla fame d’individualità. Un mondo che finisce oltre se stessi, oltre lo scibile, oltre l’umano. 

Luca Taiuti

Cresciuto per lo più a pane e film fin dagli albori della fanciullezza, laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Orientale di Napoli, ho sempre fatto del cinema la mia passione, la mia dipendenza, la mia ossessione, il mio amore, il mio sollievo, la mia inquietudine e, successivamente, il mio lavoro. Amo il teatro, che è nella mia formazione e nella mia quotidianità, e che mi ha permesso di scrivere e dirigere diversi lavori, tra cui alcuni cortometraggi, che hanno partecipato a festival e concorsi internazionali. Assistente alla regia per professione, critico per diletto, ma sognatore nella vita. email : [email protected]

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