BRIGHTBURN

Che personaggio James Gunn.

Iniziato al mondo del cinema dalla Troma (storica casa di produzione “trash” di Lloyd Kaufman, famosa per lo spirito “punk” nel creare qualsiasi pellicola), ne ha subito preso la lezione, firmando alcuni dei film cult della casa: ha scritto Terror Firmer (una serie di omicidi e disastri su un set cinematografico, mentre il regista è apparentemente cieco … idea, questa, “rubata” da Woody Allen per Hollywood Ending) e ha co-diretto Tromeo and Juliet (la versione più folle del capolavoro di Shakespeare). Hollywood deve averlo notato e Gunn è passato a produzioni (leggermente) più grandi, regalandoci l’horror-comedy ultra splatter Slither (2006) e Super! (2010), commedia nera che prende in giro il mito del supereroe, facendo anche revisionismo: l’eroe diventa un perdente che agisce per sé stesso e non per gli altri (deve riconquistare un amore perduto) ed è seguito da una sciroccata (Ellen Page), outsider quanto lui. Forse quest’ultimo deve aver colpito “sfere alte”, perché nessuno si aspettava che questo pazzo venisse chiamato dalla Disney/Marvel per I guardiani della galassia … e nessuno sapeva che ci avrebbe donato ben due pellicole su di loro, una più straordinaria dell’altra: divertimento, autoironia e affetto verso i personaggi sono state le carte vincenti per due space-opera dal grande successo e fulmini a ciel sereno, in un mare altalenante che è il cinecomic. Non è un mistero che la Disney sia creatrice di sogni ma anche “bizzarramente” chiusa: infatti, Gunn è stato (per poco) cacciato via causa certi tweet online scherzosi e provocatori (nella sua indole); questo episodio l’avrà fatto arrabbiare, ma gli ha anche portato fortuna. Non solo la Disney l’ha richiamato per il terzo capitolo dei Guardiani, ma la Warner Bros. lo ha “coccolato” affidandogli il secondo Suicide Squad (peggio del pessimo primo film non potrà MAI essere) e inoltre, per “sfogarsi”, ha riunito fratelli e cugini sceneggiatori (Brian e Mark Gunn) e il regista esordiente David Yarovesky per produrre questo “hero-movie” a tinte dark: BRIGHTBURN – L’ANGELO DEL MALE.

Non era bastato aggiornare il “genere” con Super! : se lì si era burlato del supereroe in chiave grottesca, qui l’ha rifatto … in chiave horror! I Gunn non nascondono passione né per il cinema né per il fenomeno pop dei fumetti sui supereroi e qui “rubano” senza pudore all’icona più “antica” di essi: Superman. E in pieno spirito “Gunn-sovversivo” lo stravolgono. Anche qui c’è una famiglia composta da padre e madre senza figlio; anche qui c’è una cittadina di provincia (la Brightburn del titolo); anche qui il protagonista atterra dallo spazio in una capsula aliena e raccolto, da neonato, avvolto in una coperta che diventerà simbolo del costume che indosserà “da grande”. E ovviamente, anche qui il protagonista, un “bimbo-alieno”, è introverso, intelligente e per questo deriso da quella razza, l’umana, che l’ha accolto. La novità è: se Superman invece che eroe fosse stato un cattivo? Un distruttore?Oltre a Super!, qualcun altro ha provato a “svecchiare” il “genere”, quel Josh Trank ormai lontano da Hollywood dopo il mega-flop Fantastic Four del 2015 (causa anche problemi sul set dovuti crollo psicologico di Trank); questo signore, nel 2012, su una sceneggiatura di Max Landis (figlio del grande John “Blues Brother” Landis), ci regalò Chronicle, commistione tra il falso-documentario (vera moda nel recente horror americano) e superomismo sci-fi in chiave drammatica e psicanalitica: tra rimandi ad Akira (due protagonisti, facce del bene/giustizia e del male/vendetta) e saggia messa in scena (piccola produzione che sfruttò bene il “fake-documentary” con riprese e tempi da “cinema classico”), il film è una vera bomba, ancora oggi ricordata.  Potremmo citare anche l’italiano Lo chiamavano Jeeg Robot, ma meriterebbe un articolo a parte.Brightburn, con un concept intelligente, divertente e divertito, paga il prezzo dell’originalità (in paragone a Chronicle), ma sfrutta bene quel “poco” che ha.Yarovesky, da esordiente, non eccede in movimenti di macchina arditi, pena un budget piccolo (7 milioni di dollari, briciole in confronto a produzioni Disney da 100/200, circa), ma resta quadrato, asciutto, con uno stile molto anni ’70 (si pensi a John Carpenter, che non usava MAI un carrello se non quando serviva REALMENTE) e lontano dal “barocchismo” della “Nuova” Hollywood. La fotografia dark e la musica sono nella norma (quanto la discreta e mai eccessiva CGI), ma un applauso va dato al montaggio di Andrew S. Eisen: il ritmo è avvincente, il sonoro straordinario e grazie ad essi spaventi e jumpscare sono assicurati (in sala). 

La forza del film sta nel “vantarsi” della non-originalità e sguazzare a boccate nei cliché horror: “mostri” che avanzano nel buio, “mostri” che sbucano alle spalle, “mostri” riflessi nello specchio di spalle alla vittima (Un lupo mannaro americano a Londra) … e nonostante ciò, ci si spaventa ancora. La tensione è costante grazie ad una narrazione ricca di svolte: forse scontate, ma che sorprendono. Motivo d’interesse è l’evoluzione del piccolo Brandon, interpretato dall’esordiente Jackson A. Dunn, bravissimo nel rendere la “caduta mentale” di un “killer con superpoteri” (in una scena sembra Tobey Maguire in formato “piccolo” … chissà perché …); il ragazzino, sempre tranquillo e benevolo verso i genitori adottivi (tra cui un’Elisabeth Banks/mamma stupenda), scopre i suoi poteri, la sua invulnerabilità … e si sa, da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Come per lo Spider-Man di Sam Raimi (2002), i poteri e la crescita sono metafora del cambiamento dell’individuo, ricerca della propria natura e presa di coscienza delle proprie potenzialità, ma qui siamo in campo horror. Brandon è davvero un novello Clark Kent perché, nonostante l’aspetto umano, l’umanità che lo circonda non potrà mai comprenderlo, perché troppo limitata rispetto a lui; vuoi i bulletti a scuola, vuoi adulti annoiati e ingenui, vuoi il limite umano, dettato dall’amore, nel vedere oltre il proprio egoismo e riconoscere le diversità (e le devianze) dell’altro … ovvio che un simile “eletto” non possa esser parte della nostra razza. E come per Clark Kent, la capsula aliena e la coperta che l’avvolgeva giocano elementi cardine, ma in chiave oscura: la coperta è rosso sangue (come la maschera dell’ “eroe”), la capsula emette una lugubre luce rossa e richiama a sé l’ “alieno”, a prendere coscienza di sé e a compiere il suo destino. L’entità, più che aliena, potrebbe essere una divinità mostruosa (Chtulhu di Lovercraft?), non  “buona” o “cattiva”, ma diversa, superiore agli umani e incapace di accettarli. La paura cresce insieme al male nel cuore di Brandon ma, per quanto la sua evoluzione disgusti e inquieti, non si può etichettarlo del tutto come “cattivo”: non ci è dato sapere chi fossero i VERI “genitori”, non sapremo mai perché nella sua testa scorre un flusso ipnotico di vendetta e dolore. Per assurdo, egli non ha tutte le colpe, è pur sempre un bambino, capace di amare una madre umana e provare un minimo di rimorso; la discesa agli inferi è tremenda, ma la sua scelta è il risultato della sua natura “diversa” che, silenziosa, emerge prepotente ed egli non può che accettarla. E se fosse davvero un supereroe e noi esseri inutili e da schiacciare? Ecco la forza di Brightburn: spaventa, fa sobbalzare con bei momenti splatter (un paio censurati in Italia) e, a modo suo, diverte, per la sua natura “giocosa”: prende in giro i supereroi, ma l’horror non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato e nemmeno lo stesso sport; e infatti, dopo un primo tempo lento e teso (ma ancora “normale”), il secondo diventa un classico horror slasher (alla Halloween, sempre di Carpenter), cattivissimo, senza speranza e che lascia scossi e confusi fino alla fine.

Come ogni horror dovrebbe fare.

È pur sempre un’opera prima e non mancano forzature di scrittura (due personaggi femminili, quasi importanti, spariscono di colpo a ¾ di film; le psicologie dei personaggi, seppur notevole, si potevano tratteggiare meglio), ma ad un film del genere, così “classico” e così coraggioso, non si può che voler bene.

Bravo James Gunn.

Daniele Fedele

Mi chiamo Daniele FEDELE, ho ventisei anni e possiedo due lauree: una di fascia triennale in “Discipline delle Arti Visive, della Musica, dello Spettacolo e della Moda” e un’altra “completa” in “Scienze delle Arti Visive e della Produzione Multimediale”. Oltre ad un’esperienza come “addetto alla supervisione” presso la Biblioteca Comunale “Francesco Morlicchio” di Scafati (SA), dove risiedo, per un anno ho frequentato il Master di I livello in Cinema e Televisione presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, che mi ha consentito di iniziare un periodo di stage presso la MAD ENTERTAINMENT, che tanto ammiro per aver rilanciato l’animazione come genere e forma d’arte cinematografica in Italia. Seguo l’arte del cinema e dell’audiovisivo dall’età di sei anni, sono grande appassionato di tutto ciò che riguarda la settima arte, la musica, i videogiochi e in generale ogni elemento simile che colpisca ed arricchisca l’animo umano. Per quanto piena di ostacoli e sacrifici, non potrei cambiare la mia passione con nessun’altra: vivrei un’esistenza di stenti e rimpianti, in tutt’altro settore. Mi diletto anche nell’editing video da autodidatta e ambisco a diventare regista, sceneggiatore e/o montatore per l’audiovisivo. Per qualsiasi piattaforma. Tra i miei miti “cinematografici” ci sono: il mio “maestro spirituale” QUENTIN TARANTINO, che mi ha fatto comprendere di dover “vivere nella settima arte” e non solo “sfiorarla”, JOHN CARPENTER come “maestro dell’orrore umano”, STANLEY KUBRICK come “maestro della forma e sostanza”, SERGIO LEONE, DAVID CRONENBERG, TIM BURTON, GUILLERMO DEL TORO, NEILL BLOMKAMP, JAMES CAMERON, DAVID LYNCH, GASPAR NOE`, il Maestro HAYAO MIYAZAKI nell’ “animazione che scalda il cuore e arricchisce l’anima”, WALT DISNEY come “insegnante dei sogni”, ISAO TAKAHATA come “animatore neorealista” e altri ancora impossibili da elencare. Grande estimatore dello STUDIO GHIBLI e del PIXAR ANIMATION STUDIOS, che tanto mi ha fatto sognare con “TOY STORY” e piangere con “INSIDE OUT”. Tra i miei miti “sonori” ho ENNIO MORRICONE, HANS ZIMMER, gli M83, i DAFT PUNK, JOE HISAISHI, HOWARD SHORE e vari artisti delle colonne sonore quali NOBUO UEMATSU, la TOKYO PHILARMONIC ORCHESTRA e altri. E come non ammirare HYDEO KOJIMA per aver innalzato il media videoludico a “forma d’arte”? 

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