Bohemian Rhapsody

Bohemian Rhapsody: is this the real life? is this just fantasy?

Chiunque ami i Queen e la strepitosa voce di Freddie Mercury, come chi scrive, ha, almeno in minima parte, vissuto la loro musica, così come la grande vocalità del frontman, come una fedele compagna di vita. E questo in tutte le sue declinazioni: una carezza morbida, dolce, un grido disperato, rabbioso, violento, un impeto sfrenato che si impunta aggressivo su suoni dritti e duri, una supplica straziante e spezzata, un gioco divertente e divertito; insomma, il sound di “Her Majesty, the Queen” e di Freddie era, ed è ancora, magia dell’arte e della musica che congela la morte, pura potenza espressiva che esplodeva nell’etere.

Una tale forza poderosa, nello specifico soprattutto quella di Mercury, sembra impossibile da ri-produrre, eppure viene quasi naturale pensare di metterla al centro di un’altrettanto grande forza espressiva, più generalmente narrativa, come quella di un film. Ed infatti ecco che, dopo anni di attesa ed alterne vicende produttive, arriva il 29 novembre, nelle sale italiane (con quasi un mese di ritardo rispetto all’uscita internazionale) Bohemian Rhapsody, pellicola che prende il nome, forse non c’è nemmeno bisogno di esplicarlo, dal titolo di una delle canzoni più famose della storia della musica.

Aprendosi con i momenti che precedono il Live Aid, dove i Queen faranno un’esibizione che sarà per sempre incisa negli annali della storia della musica dal vivo, il film tratta della vita della band, ma concentrandosi, ovviamente, soprattutto su quella di Freddie Mercury, partendo dagli anni degli studi londinesi (quando già si era lasciato alle spalle il nome di battesimo Farrokh, ma manteneva ancora il cognome Bulsara), fino, appunto, alla grande esibizione a Wembley. E vediamo piano piano la band prendere forma, diventare amici e sfaldarsi: dal primo incontro di Freddie con Bryan May e Roger Taylor (che allora suonavano in una band chiamata Smile, nella quale successivamente entrerà Mercury) alla loro rottura e poi riunione. Dall’amore verso la bellissima Mary (Lucy Boynton), love of his life, alla scoperta, mai in realtà resa pubblica, della sua omosessualità (difatti Freddie nel film dirà a lei, e solo a lei di “credere di essere bisessuale”), che però, anche se con vicende alterne, non incrinerà il rapporto d’affetto, tenero e dolente, tra i due. Il film, come anche lo straripante Rami Malek ha affermato, vuole concentrarsi sul lato umano di Freddie, e narrare il suo genio e le sue contraddizioni, oltre che la storia della band; band che, tra l’altro, anche viene interpretata perfettamente, con un’inquietantemente fantastica somiglianza fisica e gestuale da parte di Ben Hardy, Gwilym Lee e Joseph Mazzello. Ritornando su Rami Malek, che, come si è intuito, tira fuori un’interpretazione che in alcuni punti porta avanti da sola il film, abbiamo una chicca che purtroppo il doppiaggio italiano non restituisce: il grande lavoro sull’accento e la parlata che erano propri del frontman dei Queen, con anche la difficoltà aggiuntiva della protesi dentaria forse un po’ troppo accentuata. Vi è inoltre dai cinefili l’apprezzatissimo cameo di Mike Myers, su cui non si dirà niente perché è una cosa da… Fusi di testa.

Insomma, grazie alla grandissima performance del protagonista, alla bella fotografia di Newton Thomas Siegel ed alla travolgente musica dei Queen, il film trasporta un pubblico commosso attraverso quindici anni della storia della band. Questo viene fatto grazie alla sceneggiatura di Anthony McCarten, sulla quale si appoggia la regia di Bryan Singer (in prima battuta, licenziato a due settimane dalla fine delle riprese) e Dexter Fletcher (non accreditato). Forse è su questo versante che il film, per chi davvero ama i Queen, cala un po’. Questo per tanti fattori, e non solo per le licenze poetiche narrative che, sia chiaro, sono legittime in un’opera cinematografica ma che forse qui sono troppo spinte, ottenendo l’effetto contrario rispetto a quello al quale aspirerebbero. La risultante di queste operazioni è infatti un film confortevole per lo spettatore, che segue il canonico ciclo di ascesa-declino-redenzione tipico del genere biografico musicale (che non rende troppo giustizia al nostro Freddie), senza lasciare troppo spazio per un conflitto in grado di impensierire i protagonisti, né tantomeno il pubblico. Non sembra esserci, per almeno tre quarti di film, una situazione che il talento del cantante non sia in grado di risolvere, apparentemente senza sforzo. Una scelta che, molte volte, privilegia l’esaltazione alla tensione drammatica, facendo perdere al film un po’ di mordente. Ed, al livello della sceneggiatura, che dovrebbe esprimere il dramma, nel bene e nel male, di un uomo quale è stato Freddie Mercury e di una band quale sono stati i Queen, non si riesce a raggiungere il giusto pathos narrativo ed a restituire le giuste emozioni e la giusta veridicità: la tendenza, quasi in ogni dialogo, dei personaggi a parlare uno per volta e con battute-spiegoni e l’estrema didascalicità delle scene finiscono per rendere la narrazione un po’ abbozzata e deludente, non osando mai nemmeno un po’. La pellicola non spicca mai il volo, se non come Icaro. E questo non perché non fosse possibile raccontare qualcosa di forte con i personaggi in ballo, anzi.

E qui si gioca un altro aspetto strano della vicenda: le sopra citate licenze poetiche. La grande parabola cinematografica dei Queen è, appunto, solo ed unicamente cinematografica. Certamente, si tratta di un film e non di un documentario, ma proprio gli aspetti che danno pathos alla vicenda sono i più alterati: i Queen non si sono mai sciolti rompendo fra di loro, per esempio. Anzi, Taylor e May furono i primi a pubblicare album da solisti negli anni precedenti la pausa, e l’album di Mercury infatti uscirà solo nel 1985. Inoltre, purtroppo l’affetto verso la band mi porta a dirlo, allo stesso modo in cui non si sono sciolti, non si sono riuniti: l’esibizione al Live Aid non è la prima dopo un lungo tempo di divisione, ma, anzi, viene dopo un discutibile e discussissimo tour in Sud Africa (i Queen avevano pochi mesi prima suonato a Sun City, città simbolo dell’apartheid, il che generò non poche polemiche per il successivo palco del Live Aid). Infine, anche se ci sarebbero tante altre cose da dire, addossare tutti i lati oscuri a Paul Prenter (Allen Leech), come se fosse lui a costringere Mercury ad orge, party ed a traviarlo dalla retta via, per quanto in effetti egli sia stato una figura dannosa per il frontman dei Queen, risulta una soluzione semplicistica e non corretta; ma dopotutto se si desidera un’hollywoodiana narrazione standard, un film ha bisogno di un cattivo assoluto.  Il capitolo amore ed AIDS porta invece tante di quelle riflessioni ed accorgimenti che richiederebbe un articolo a sé (ma, ad esempio, nella necessità di rendere cinematografica la storia, nella pellicola accade che Freddie Mercury prima scopra di aver contratto l’AIDS e dopo, avendolo cercato ovunque negli anni precedenti, trovi l’uomo con cui finirà i suoi giorni: Jim Hutton, interpretato da Aaron McCuscker; se ci si pensa, è un assurdo incredibile).

Di conseguenza, guardando quest’opera, ci si deve ricordare che in effetti, all’indimenticabile domanda d’apertura della canzone che le dà il titolo, la risposta è la seconda: it’s just fantasy, senza nulla togliere all’incredibile interpretazione che la anima.

In definitiva, quindi, seppur con i suoi limiti, il film funziona e fa commuovere, pur dando sempre l’impressione di poter dare di più. Molto emozionanti risultano gli ultimi minuti, dove vengono riprodotti con una certa fedeltà filologica i momenti vissuti sul palco del Live Aid. Certo, scelta bizzarra ed inusuale quella di concludere la pellicola in un tal punto, perché è sì forte e commovente, ma magari comprendere nella narrazione il disco che fu fondamentalmente il testamento spirituale di Freddie avrebbe dato quella carica, quella forza, che questa narrazione cerca per tutta se stessa e che non trova: il bellissimo Innuendo.

Ma forse Freddie, ad ogni modo, avrebbe solo sorriso di tutto ciò e, in maniera leggera e sorniona, avrebbe magari solo declinato diversamente la sua iconica frase:”I’m just a musical prostitute, my dear”.

Claudio Fabbroni

Scenografo, produttore, fotografo e caratterista: tutte cose che non sono. Classe ‘99, dicono io sia studente di Filosofia e sceneggiatore e regista a tempo perso. Ho fatto parte della giuria per l'assegnazione del premio "Leoncino d'Oro" alla 75a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, scritto e diretto qualche opera low budget e lavorato su vari set. Amo Woody Allen, Jacques Tati e Groucho Marx. Odio la critica, le recensioni, l'incoerenza e l'umorismo. [email protected]

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