I MORTI NON MUOIONO

I morti non muoiono (The Dead don’t Die) è il film che ha aperto la 72ª edizione del Festival del Cinema di Cannes.

Regia di Jim Jarmusch, cast incredibile che vede in prima fila Bill Murray, Adam Driver e Chloë Sevigny accompagnati da Tilda Swinton, Caleb Landry Jones, Steve Buscemi, Danny Glover, Tom Waits, Iggy Pop, Selena Gomez e RZA. Soltanto sapendo tutto ciò, ai tanti cinefili in giro per il mondo era già venuta l’acquolina in bocca, creando forse delle aspettative fin troppo alte, che ora dicono, probabilmente con fare troppo duro, essere state deluse.

Ad ogni modo, andiamo con ordine.
Tutti i personaggi citati si muovono nello spazio di “Centralville – a really nice place (come ci dice il cartellone d’ingresso della cittadina) che si rivelerà essere un po’ come la dylandogiana Zona del Crepuscolo nata dalla penna di Tiziano Sclavi. Il dato dell’universo fisico in cui agiscono i personaggi è interessante, perché è in questa “vera America” che Jarmusch fa scatenare la sua piuttosto peculiare apocalisse zombie. Perché tale definizione è presto detto: Centralville è il tipico villaggio americano in cui il massimo dei crimini commessi è rubare galline o denunciare di aver subito quello stesso furto dichiarando il falso. C’è qui la tipica immagine della polizia amichevole rappresentata da un Bill Murray vecchio e stanco, c’è Adam Driver che si ripete ancora una volta nei panni dello scemotto silenzioso ma con una componente di genio. C’è il classico diner americano, ci sono i weirdos di città e naturalmente tutti hanno la loro doppietta a disposizione nell’ingresso delle loro case. È l’America dei Redneck, l’America di Trump. Oltre a ciò, c’è un Buscemi reazionario e iroso (a cui vien fatto indossare, con intento apertamente polemico, un cappello con i temi della campagna elettorale dell’attuale Presidente recitante la scritta “Make America white again”), una Swinton in un ruolo particolarissimo, un Tom Waits eremitico e un Iggy Pop che riesce a stare a petto nudo anche da zombie. C’è un gustoso inside joke dedicato ad Adam Driver e a Star Wars – l’attore è tra i protagonisti della nuova trilogia fantasy nel ruolo di Kylo Ren – e c’è ad un tratto una svolta completamente inattesa che si prende gioco del film stesso e che scherza apertamente con lo spettatore. E c’è però anche un’altra premessa interessante: in questa “vera America” anche noi siamo zombie e non ce ne rendiamo conto; sì, perché chi sono e cosa vogliono questi non-morti? Sono consumatori del XXI secolo, materialisti che anche da morti non vogliono che essere dipendenti dalle cose dalle quali lo erano anche in vita, quindi smartphone, Xanax, banda larga e tanto caffè, cosa che per altro riesce a scatenare ottimi momenti comici. Insomma, la metafora romeriana dei morti viventi scivola oggi nel sopraccitato trumpiano “Keep America White Again” stampato sul cappello del bifolco allevatore Steve Buscemi. Gli zombi diventano quindi anche il correlativo oggettivo di ogni semplificazione politica di quest’ultimo decennio –  nello specifico l’America di Trump, certo, ma il discorso ambientalista sposta il focus sull’intera politica mondiale, dal momento che l’apocalisse zombie viene scatenata da un disastro ambientale dovuto al troppo sfruttamento delle risorse, che però la “politica ufficiale” nega fermamente – con l’horror e la commedia nera a fare da grande contenitore e interfaccia privilegiata per il pubblico. The Dead don’t Die usa, quindi, romerianamente, gli zombie come immagine di una società addormentata, schiava dei propri vizi e succube di tutto ciò che le viene detto ed inculcato, quasi come una sorta di lavaggio del cervello (cervello che, da notarsi, questi non-morti non amano, mirando piuttosto ad addentare la pancia). Si consuma quindi a Centralville un’apocalisse del paradosso, grottesca e divertente, dove negare l’evidenza dei fatti è all’ordine del giorno: lo zombie non esiste, un po’ come non esiste il razzismo, le discriminazioni di genere, il bullismo, il potere di alcuni politici sempre più pericoloso.

Pur avendoceli praticamente sempre davanti agli occhi. La pellicola è poi condita con miriadi di riferimenti e citazioni al panorama cinematografico non solo horror e con un lavoro intertestuale, metacinematografico molto divertente e surreale, che prende apertamente in giro il film stesso e lo spettatore, soprattutto nel momento più critico dell’assalto dei morti viventi. Un’operazione talmente tanto consapevole da sfondare il muro del metacinema più autoreferenziale: il personaggio di Adam Driver – chiamato Peterson, una sola vocale di distanza dal precedente film – conosce la sceneggiatura scritta da “Jim” e anticipa molti dettagli della trama, compresa l’omonima “canzone familiare” della colonna sonora, salvo rimanere sorpreso anche lui (per una buona volta nella sua divertente seraficità) quando le cose prendono una piega davvero assurda che non c’era “nel copione che avevo letto io”. Purtroppo tutto questo non riesce a bastare per tirare fuori un film al livello dei precedenti – anche perché il fatto di far capire già da subito che sia “solo un film” e che i personaggi lo sappiano rende le loro azioni un po’ senza una vera motivazione e interrompe la suspension of disbelief riducendo il coinvolgimento dello spettatore – però rende l’opera piuttosto divertente e godibile, ed il messaggio che passa è incredibilmente chiaro, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Del resto, alla fine, non possiamo non essere d’accordo con l’”eremite Bob” Tom Waits: what a fucked up world.

Claudio Fabbroni

Scenografo, produttore, fotografo e caratterista: tutte cose che non sono. Classe ‘99, dicono io sia studente di Filosofia e sceneggiatore e regista a tempo perso. Ho fatto parte della giuria per l'assegnazione del premio "Leoncino d'Oro" alla 75a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, scritto e diretto qualche opera low budget e lavorato su vari set. Amo Woody Allen, Jacques Tati e Groucho Marx. Odio la critica, le recensioni, l'incoerenza e l'umorismo. [email protected]

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