I FRATELLI SISTERS

Il primo film americano di Jacques Audiard è un atipico western psicologico di sorprendente umanità e inaspettata freschezza.

Siamo nel 1851, in Oregon. I fratelli Eli (John Reilly) e Charlie (Joaquin Phoenix) Sisters sono dei sicari pistoleri al servizio del Commodore (Rutger Hauer). Vengono mandati sulle tracce di Herman Warm (Riz Ahmed), cercatore d’oro che ha messo a punto un processo chimico per separare l’oro dagli altri residui minerali, metodo di cui il Commodore vuole prendere possesso. A precedere la caccia dei fratelli Sisters c’è il detective John Morris (Jake Gyllenhaal), investigatore che ha il compito di rintracciare Warm e trattenerlo fino all’arrivo dei due pistoleri. Ma Morris finisce per rimanere sbalordito dalle idee di Warm, che lo coinvolge nella sua impresa: trovare l’oro da soli e costruire una società ideale a Dallas. 

Tratto dall’omonimo romanzo di Patrick deWitt, i cui diritti sono stati acquisiti da John Reilly, qui anche produttore oltre che attore protagonista, I fratelli Sisters è un western atipico, scritto e diretto dal francese Jacques Audiard, autore di successi come Dheepan (2015, vincitore della Palma D’Oro), Un sapore di ruggine e ossa (2012) e Il profeta (2009). Con un occhio ai canoni classici del genere, ma con la volontà vera di dare forma a qualcosa che già nella scrittura vada più verso le relazioni e le psicologie dei suoi personaggi, prerogativa del suo modo di fare cinema sin dagli albori, Audiard è chiamato alla prova più grande della sua carriera: dare forma al suo primo film americano. Per plasmare qualcosa di più “personale” e “puro”, lontano dagli ibridi a cui i grandi nomi sono spesso sottoposti quando si affacciano al grandissimo pubblico, all’autore francese non solo vengono consegnate le chiavi dell’opera nella scrittura, ma gli viene affidato un cast d’eccezione che conta almeno tre dei migliori profili attoriali del panorama americano, e non solo. Il film, per quanto guardi ad alcuni autoriali capisaldi che rappresentano un’autentica protesi cognitiva (come non pensare a Johnny Guitar di Nicholas Ray all’arrivo dei fratelli Sisters a Mayfield, o a gran parte della produzione fordiana in svariate zone), ha una volontà, su stessa ammissione del suo regista, di andare oltre il confronto con tutto ciò che fa di queste opere dei classici. Per questo I fratelli Sisters può essere definito un western anticonvenzionale “della deriva”, un racconto intimo e mai banale, lontano da quegli appigli nell’immaginario classico del genere rappresentano quasi delle regole. È così sin dalla sparatoria iniziale, dove nel buio quasi pesto intravediamo per la prima volta i protagonisti e, come in tutti gli scontri successivi del film, il duello è visto in parte, salvo poi essere molto chiaro nello crudezza dello sparo finale, con la volontà dai primi istanti di creare un disorientamento. Come ci ha già abituato a vedere nel suo cinema, Audiard predilige l’introspezione e le relazioni tra i suoi personaggi, più che gli spargimenti di sangue (che pure ci sono, e in certe parti l’impatto dell’azione è devastante), evitando tutto ciò che è eccessiva spettacolarizzazione della vicenda, a favore di una dimensione molto più umana, e politica, del suo racconto. Da una parte guida i suoi personaggi verso un sogno percepito come sempre più “vicino”, eppur estremamente illusorio: la formazione di un mondo ideale, una civiltà basata sulla convivenza più che sulla convenienza dei singoli. Dall’altra li guida verso la messa in discussione di se stessi, e dell’agire all’interno e fuori dalla legge.

Audiard ci presenta i personaggi nella dicotomia Charlie-Eli Sisters, un fratello minore incattivito da un trauma d’infanzia contro un fratello maggiore riflessivo e guidato dalla mitezza, e il duo Morris-Warm, lo spigoloso detective in crisi interiore contro il cercatore d’oro guidato dalla concretezza della scienza e dall’ingenuità del sogno; un gioco delle coppie che fa leva sulle diversità e che permette al regista di cercare meno nella performance individuale e più in quella collettiva, bilanciando perfettamente gli interpreti nella direzione. Quella che probabilmente ne esce una virgola sopra tutti, anche sopra i favolosi Phoenix e Gyllenhaal e il sorprendente Ahmed, è probabilmente la straordinaria performance di John Reilly, nei panni del bonario Eli Sisters, a cui è affidata anche la maggior parte di tenerezza e di vis comica, vera sorpresa a un certo punto con un paio di gag davvero memorabili. Proprio la coscienza del suo personaggio porterà una storia di soldi e uccisioni nella confusione e nella confluenza d’intenti verso il sogno di una società migliore, un miraggio che in qualche maniera illumina i personaggi, distogliendoli dai motivi che li avevano mossi all’inizio della vicenda. Il finale, quasi inaspettato, trasforma la dolcezza in un ritorno quasi infantile alla quiete delle origini e del grembo materno, e rivela l’umanità dei personaggi, rappresentando uno sconvolgimento all’interno del genere. La regia, che si districa alla perfezione tra quattro cavalli di razza, è pronta, incisiva, perfino innovativa. Dedica ampio spazio ai dialoghi ma non tralascia le sequenze visive. Non abusa mai di maestosi panorami (scenari visti e rivisti), ma cerca sempre il taglio giusto, valorizzandoli con la fotografia di Benoît Debie e immortalandoli in campi lunghi morbidi e fluidi, che fanno da contraltare alle frenetiche sequenze di sparatorie, ove vige l’uso della camera a mano tipica in Audiard. Il regista compie un ulteriore grande passo in avanti nella sua carriera di cineasta, con tutte le conseguenze che esso comporta. In tal senso, la diminuzione di stacchi interni, che hanno sempre contraddistinto il suo cinema, sono un segno di maturità, nonostante qualche virtuosismo sul finale ci sia. In questo modo Audiard ascrive il suo film a un filone di opere western che, come già proposto da Tommy Lee Jones con Le Tre sepolture (2005), da Ang Lee con I segreti di Brokeback Mountain (2006) e da Andrew Dominik con L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007), non cercano mai ossessivamente il loro compimento, ma hanno l’urgenza di sentirsi prima di tutto umane, compiendo già con questo un’autentica rivoluzione.

Luca Taiuti

Cresciuto per lo più a pane e film fin dagli albori della fanciullezza, laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Orientale di Napoli, ho sempre fatto del cinema la mia passione, la mia dipendenza, la mia ossessione, il mio amore, il mio sollievo, la mia inquietudine e, successivamente, il mio lavoro. Amo il teatro, che è nella mia formazione e nella mia quotidianità, e che mi ha permesso di scrivere e dirigere diversi lavori, tra cui alcuni cortometraggi, che hanno partecipato a festival e concorsi internazionali. Assistente alla regia per professione, critico per diletto, ma sognatore nella vita. email : [email protected]

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