1917

10 candidature ai prossimi premi Oscar. Sequele di meriti e di promozioni da parte della critica europea ed oltreoceano. Un team lavorativo e creativo di tutto rispetto. Un soggetto ed un contesto storico poco affrontato e poco presente in ambito cinematografico, se non per il magnifico e kubrickiano Orizzonti di gloria. Queste le numerose potenzialità di 1917, ultimo film scritto e diretto da Sam Mendes. Il regista – vincitore del premio Oscar nel 2000 per American Beauty – ci porta letteralmente indietro nel tempo, poco più di un secolo fa, nel 1917, appunto, in piena Prima guerra mondiale. Fronte occidentale nel nord della Francia. Un campo di fiori, una vegetazione rigogliosa, occupata, qualche secondo dopo, dall’umanità al peggio di sé, un’umanità in guerra, distruttiva, catastrofica, miserabile. Il film segue letteralmente – e tecnicamente – le orme di due soldati dell’esercito inglese: i caporali William Schofield e Tom Blake. Chiamati agli ordini da un loro superiore, devono recarsi immediatamente dal generale Erinmore per fare rapporto. Se il generale in persona ha richiesto la loro presenza, significa che ci sono guai all’orizzonte, guai grossi, guai che fanno paura. I due giovani commilitoni ricevono, infatti, l’incarico di consegnare un dispaccio che avverte di un’imminente imboscata dell’esercito tedesco ritiratosi oltre la Linea Hindenburg. Per salvare le vite di oltre 1600 uomini, tra cui il fratello di uno di loro, inizia, per Will e Tom, una vera e propria corsa contro il tempo sospesa tra la vita e la morte, piena di insidie, sorprese, totalmente sul filo del rasoio. Dopo aver diretto il frenetico Skyfall e il meno riuscito Spectre – entrambi della storica saga spionistica di 007 -, Sam Mendes si imbarca in un’avventura veramente pretenziosa e rischiosa sotto molteplici livelli, ma ce la fa in pieno, confezionando due ore di grande tensione e di grandi emozioni, potenziate da un comparto tecnico sublime e dalla magia che solo la sala cinematografica può regalare. Con questo 1917, Sam Mendes firma la sua opera migliore, tecnicamente parlando. Il regista punta, nella riuscita finale della sua pellicola, nella presenza martellante e costante di un tecnicismo spettacolare e “spacca-mandibola” per un fine puramente pirotecnico e sorprendente. Se fosse, in assoluto, l’ultimo film prodotto da Mendes potrebbe quasi considerarsi quasi un testamento che dimostra, oltretutto, un miglioramento ed una consapevolezza maggiori dal claudicante Spectre – senza alcun dubbio il film di 007 peggiore degli ultimi anni, se non per qualche piccolo particolare. Mendes segue il percorso tracciato, per citare un prodotto filmico recente, nel 2014, da Alejandro Gonzalez Inarritu per il suo Birdman, ovvero quello di girare un intero film sfruttando la difficile e pericolosa tecnica del piano sequenza. Ora, per chi non fosse avvezzo di linguaggio cinematografico, il piano sequenza, per citare Bazin, è <>. Detto in parole semplici, il piano sequenza è una lunga inquadratura, quindi senza stacchi, che riprende una o più scene che normalmente sarebbero raccontate con più inquadrature, senza usufruire quindi di elementi di discontinuità. Quindi, ad uno spettatore non troppo attento al comparto tecnico di montaggio, sembrerà che il film sia stato girato tutto in un’unica take, ovvero in un unico ciak, senza tagli. Ottica alquanto impossibile da un punto di vista logistico delle riprese e non solo. Il film, infatti, presenta dei tagli, ma questi sono così ben nascosti, nei passaggi di macchina, nell’azione, in primo piano, sullo schermo, da legittimare l’illusione della take unica, appunto. Mendes poteva cadere nella tentazione di una fin troppa artificialità tecnica – problema riscontrabile, per esempio, in The Revenant dello stesso Inarritu -, andando, quindi, a minare una naturale immedesimazione del pubblico nel racconto di Will e Tom. Al contrario, la regia centrata, persecutrice, focalizzata, a volte quasi oppressiva, di Mendes non fa altro che favorire un aumento notevole di angoscia, tensione ed inquietudine, elementi che permeano tutta la pellicola, a partire dalla missione, al limite del suicidio, assegnata ai nostri due protagonisti. L’ocularizzazione interna con Will e Tom, da parte dello spettatore, favorisce una condizione permanente, durante la visione, di racconto sul filo del rasoio, perché il montaggio e i tagli, che, di solito, permettono un’onniscienza del pubblico riguardo ai pericoli che l’eroe dovrà fronteggiare, qui, vengono obliterati totalmente. Lo spettatore e i protagonisti vengono posti, in questo modo, sullo stesso piano, favorendo un’immedesimazione ancora maggiore con ciò che il primo sta visionando. Così come Will e Tom sono all’oscuro di quello che li aspetterà, lo stesso succede al pubblico, costantemente ritto sulla poltroncina, in attesa di un colpo sparato, un’esplosione, un twist, una tragedia o un colpo di fortuna che possa cambiare le sorti. In questo legame duplice tra una specie di personaggio attivo – quello filmico – ed uno passivo – noi spettatori -, risiede la forza di 1917 che, con la sua azione marmorea, i suoi movimenti di macchina fluidi e chiari e le sue sequenze al cardiopalma, a dir poco epocali ed emozionanti, rappresenta, senza dubbio, un’esperienza cinematografica veramente imperdibile. Come già scritto sopra, il film di Mendes è nominato in 10 categorie nella prossima edizione dei celebri premi Oscar, tra cui miglior film, miglior sonoro, migliore colonna sonora e… migliore sceneggiatura originale. Ecco, diciamo che non è proprio azzeccatissima la candidatura in una divisione parzialmente e prettamente narrativa come quest’ultima. Certo, l’azione è ben orchestrata, il découpage tecnico è sicuramente ben fatto, la tensione c’è e si percepisce prepotentemente, ma 1917, a livello di racconto è estremamente carente e banale. Anche se fresca e relativamente nuova in quanto a localizzazione storica, la narrazione di Mendes non è altro che un pretesto narrativo per sfociare, di conseguenza, nell’irrazionalità emotiva pura e smaccata e nella spettacolarità delle differenti sequenze d’azione che compongono la quasi totalità del film – frenetiche e ben cadenzate. A livello narrativo, questo 1917 sembra la trasposizione filmica di un videogioco, di un Battlefield o di un Call of Duty che sia. C’è da dire, tuttavia, che questa semplicità dell’incipit – costituita, in poche parole, da missione, obiettivo, azione – salva, in qualche modo, la pellicola del regista britannico dalla confusione ed una gestione nauseante della macchina da presa nei dialoghi, veramente ardui e rischiosi da rendere al meglio in un film completamente girato in piano sequenza e, per lo più, così rapido nei tempi. Nonostante questa poca profondità, come già affermato, lo spettatore si immedesima incredibilmente con i due commilitoni, seguendo con moltissima ansia, ma altrettanta curiosità, la loro corsa ininterrotta tra i devastanti campi di battaglia francesi. La componente dialogica della pellicola viene ridotta al minimo, ma interpretazioni, fisicità degli attori, colonna sonora, drammaticità dei momenti e della vicenda e fotografia adempiono al compito e all’obiettivo principale del film: emozionare e trasportare lo spettatore per due ore piene senza neanche un attimo di respiro. Tra fango, topi, filo spinato, macerie, fuoco e fiamme; i due caporali condurranno una missione incredibilmente frenetica, ritmata, dal passo veloce. Il film scocca la freccia e questa arriva diretta al bersaglio, scivola via come se fossero un paio di minuti, aiutato notevolmente dal cambio costante di ambientazioni e di visuals diversi – proprio come un videogioco a livelli. Il tutto, ad ogni modo, è così ben orchestrato e realizzato, da un punto di vista tecnico, da essere praticamente indimenticabile. Se, sotto l’aspetto narrativo, i personaggi possono risultare poco caratterizzati, d’altro canto, le interpretazioni accrescono ancora di più quella immedesimazione che si viene a creare a partire dai primi minuti della pellicola, inizialmente, grazie alla tecnica registica utilizzata. Il cast, totalmente britannico, è quadrato, al posto giusto, semplicemente perfetto, bilanciato e mai sacrificato. Qualsiasi personaggio di questo 1917, per un motivo o un altro, rimane fisso nella mente di chi lo guarda. In una letterale calca di grandi personalità attoriali come Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Andrew Scott e Mark Strong, le due interpretazioni che esaltano e rendono 1917 un film memorabile, totalmente diverso, sono quelle dei due protagonisti. Sto parlando di George MacKay nel ruolo del caporale Schofield e di Dean Charles-Chapman in quello di Blake. Se Chapman è ormai un volto noto ai più e al pubblico di massa per il ruolo di Tommen Lannister ne Il Trono di Spade, MacKay – conosciuto all’audience per la sua risicata parte in Captain Fantastic, al fianco di Viggo Mortensen – è la vera e propria rivelazione della pellicola. I due dimostrano una chimica fantastica su schermo e mantengono la tensione in maniera impeccabile, anche solo con un cenno o un semplice gesto. A MacKay è riservata, comunque, la parte più grossa e impegnativa della produzione e trasmette, su pellicola, un lavoro espressivo e fisico che ha dell’eccezionale. Altro aspetto da tenere in assoluta considerazione parlando di questo film è senza dubbio la sua componente sonora, intesa sia come colonna sonora che come suoni ambientali, rumori e resa di questi. Essendo il film di Mendes un compito ineccepibile di tecnica, la stessa valutazione si applica tassativamente anche ad una delle sezioni più pregiate e migliori della sua produzione. Consiglio personalmente di visionare la pellicola, se possibile, in Atmos, perché 1917 è un’opera che sfrutta completamente le potenzialità e l’immersione date da un ottimo impianto audio. Oltre al visivo, il film quindi si fa riconoscere per uno studio ed un’attenzione cristallina e consapevole riservata al sonoro in generale e al suo montaggio. La colonna sonora di Thomas Newman, figlio del premio Oscar per il soundtrack Alfred Newman e cugino del celebre compositore Randy Newman, rappresenta la colonna vertebrale dell’intera produzione. A partire dal tema – ripreso anche nel finale – struggente e malinconico, quasi nostalgico, fino ad arrivare agli arrangiamenti più ritmati e tesi, il tempo musicale e il ritmo del film si mescolano, formando un intreccio meraviglioso ed estremamente emozionante. Alcuni brani di questa soundtrack entrano, fin da subito, nella testa dello spettatore e la colonna sonora in sé non lascia mai andare i protagonisti, li sostiene, li valorizza, li accompagna, li opprime, così come l’attenzione e la tecnica registica di Mendes. La musica è un continuum, parte all’inizio, per poi esplodere sul finale e concludersi con uno dei temi più significativi degli ultimi tempi, a pari merito solo con le musiche di Hildur Guðnadóttir per Joker. 1917 è, in definitiva, semplicemente, uno dei migliori momenti cinematografici degli ultimi tempi, una lezione di tecnica magistrale, con una stretta relazione e collaborazione tra regia, montaggio, sonoro ed interpretazioni. Anche se carente, dal punto di vista del racconto, il film di Mendes gioca le carte giuste, mostra la propria potenza – come non citare la strepitosa fotografia targata Roger Deakins (Blade Runner 2049), che da il meglio di sé nella macrosequenza della città -, il proprio carisma, la propria sensibilità e il proprio prestigio. Un film assolutamente circolare già a partire dalla struttura – un cerchio perfetto con un parallelismo inconfutabile tra inizio e fine; si ritorna ad una dimensione naturale e primigenia, amorosa, affettiva, nostalgica e si rimane col cuore in quel mondo, il mondo di Mendes -, una pellicola emozionante che rimane incastonata nelle menti e nei cuori di chi la guarda, per la tensione che suscita, le emozioni e la reazioni che provoca, nonostante un messaggio attuale che probabilmente sarebbe potuto scaturire ed essere trattato maggiormente. Gran cinema nella sua dura e pura essenza, niente di più, niente di meno.

Nicolò Baraccani
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